La tanatologia nei percorsi universitari, di Davide Sisto
Negli ultimi due anni ho tenuto un insegnamento di Filosofia ed Etica della Cura, della durata complessiva di 54 ore, per il corso di laurea triennale di Scienze dell’Educazione all’Università di Torino. Per la maggior parte delle ore dell’insegnamento ho affrontato i temi principali della tanatologia, della Death Education, della Digital Death. Ho, in altre parole, parlato di morte e lutto per svariate decine di ore con studentesse e studenti ventenni che si stanno formando nel campo della formazione e dell’educazione.
Non è così consueto affrontare questo tipo di tema in Università, al di là delle questioni prettamente bioetiche e giuridiche che concernono le scelte di fine vita e le definizioni di morte in una società tecnologicamente evoluta. Abbiamo, in generale, parlato di rimozione della morte, di riti funebri, delle cure palliative, delle conseguenze sociali, culturali e filosofiche della perdita di un proprio caro nel mondo contemporaneo, dei diversi modi di dare un senso alla propria mortalità dall’antichità al XXI secolo e, ovviamente, dell’impatto delle tecnologie digitali nel rapporto odierno tra la vita e la morte.
È stato molto interessante osservare la reazione dei discenti, la quale ha seguito in entrambi gli anni un vero e proprio percorso di crescita. Inizialmente, per loro stessa ammissione, il tema ha avuto un impatto piuttosto forte e inibente, perché non siamo abituati a parlarne liberamente. È inusuale affrontare senza fronzoli e pudore questo tema, spesso ritenuto addirittura inopportuno. Dunque, la loro iniziale tendenza è stata quella di ascoltare passivamente senza farsi troppo coinvolgere. Man mano che le ore sono passate, l’iniziale shock si è trasformato nel bisogno generale di intervenire in maniera attiva, dunque di partire dalle proprie esperienze biografiche (la morte di un parente stretto o di una persona comunque vicina, il personale modo di concepire la propria mortalità, ecc.) per riflettere insieme sulle necessità generali del prendersi cura e, soprattutto, sulle mancanze relative alla cura totale della persona, facendo emergere le differenti prospettive religiose e laiche sulle questioni dibattute. Ci siamo, in altre parole, resi conto insieme e in senso pratico di come siamo poco abituati a considerare gli effetti problematici della differenza tra la cura intesa da un punto di vista prettamente medico (“to cure”), la quale trasforma il singolo in un “paziente” nel senso letterale del termine, e la cura intesa come attenzione per la persona nella sua totalità (“to care”).
La cosa che mi ha più colpito è che, alla fine dei due corsi, numerose studentesse e studenti – diciamo, qualche decina – mi hanno proposto una tesi di laurea sul tema della morte declinato in funzione specificamente educativa o formativa: per esempio, come affrontare il lutto e la malattia dei bambini e degli adolescenti (uno dei temi più scelti), come praticare forme di Death Competence negli ospedali e in tutti i percorsi scolastici, come inserire la riflessione sulla nostra mortalità in ogni settore della società dove si fa educazione, come tener conto delle diverse esigenze rituali in materia di fine vita all’interno di un mondo multiculturale, come le tecnologie cambiano il desiderio o l’illusione dell’immortalità, ecc.
Questa ampia richiesta di approfondire i temi tanatologici spesso in riferimento all’educazione infantile, dopo un’iniziale e comprensibile ritrosia, mi ha fatto riflettere su quanto lavoro occorra ancora svolgere per far sì che la morte e il lutto diventino temi centrali – per esempio – nel campo universitario. Non è logico, a mio avviso, che la rimozione novecentesca della morte continui ad avere un impatto così significativo là dove, invece, è necessaria una preparazione che potrebbe, nel pratico, consentire un miglioramento generale delle pratiche di cura. L’esperienza maturata nel campo della tanatologia da tutte le persone che se ne occupano da svariati anni dovrebbe, finalmente, essere convertita in percorsi educativi ben strutturati, necessari per superare una volta per tutte il tabù.
Sono curioso ovviamente di vedere come le persone che hanno approfondito, nelle loro tesi, il tema tanatologico riusciranno ad applicarlo nel campo lavorativo e capire se, nel corso degli anni, ci saranno rilevanti metamorfosi culturali e sociali.
Voi cosa ne pensate? Ritenete opportuno che si insegnino temi tanatologici in Università, nei campi della formazione e dell’educazione? Attendiamo i vostri commenti.