La nuova frontiera delle cure palliative, la quarta età, di Marina Sozzi
Si è appena concluso il XXIII Congresso della Società Italiana di Cure Palliative, a Roma, e vorrei condividere su questo blog alcune riflessioni che mi sono apparse urgenti e importanti, e che non sono per addetti ai lavori.
Si tratta del dovere che abbiamo, nel rispetto della legge 38 del 2010 (che garantisce le cure palliative a tutti i cittadini, definendole come un diritto) di estendere le cure palliative a chi muore in tarda età, non per cancro. Ricordo che solo il 5% delle cure palliative erogate in Italia riguardano persone che non hanno malattie oncologiche.
La medicina ha saputo aumentare molto l’aspettativa di vita degli individui, ma non sempre, purtroppo, l’attesa di anni di vita coincide con la salute, o con una qualità di vita accettabile per il soggetto in questione. L’Italia è il paese europeo con il maggior numero di ultraottantenni, che muoiono per cause diverse dal cancro (solo il 12/14% delle persone con più di 80 anni muore a causa di un tumore): in genere, a quell’età i pazienti convivono con un alto numero di patologie che la biomedicina ha saputo cronicizzare, permettendo loro di continuare a vivere, ma che rendono questi anziani estremamente fragili. Purtroppo, come ha ben evidenziato il professor Giovanni Gambassi, del Policlinico Gemelli di Roma, il modello di medicina incentrato sul disease è fallimentare in questi casi. Ancora il 60% di questi vecchi non muore a casa sua, l’aggressività del trattamento continua dopo l’85esimo anno di età (senza intercettare il bisogno della persona), si ventilano a volte pazienti con demenza e polmonite, il 30% degli anziani che muore ha subito un inutile intervento chirurgico nell’ultimo anno di vita. E mentre accade tutto questo, i sintomi disturbanti e il disagio vengono ignorati, sottovalutati, non trattati.
Si è di fronte a un curioso paradosso: è stata la medicina ad allungare la vita e cronicizzare la malattia, ed è la prima a non essere in grado di gestire la nuova situazione creata. Si è trattato di una mancanza di lungimiranza e immaginazione sulle conseguenze del proprio operare, che spesso accompagna gli uomini molto concentrati su un obiettivo.
Occorre – oggi ci appare evidente – modificare il modello d’intervento, costruendo un approccio palliativo progressivo, consapevoli dell’era della cronicità in cui siamo entrati, e dell’esigenza di personalizzare le cure per tutti, ma a maggior ragione per gli anziani. Ciò non significa abbandonare terapeuticamente pazienti che possano ancora trarre un beneficio significativo da un intervento anche invasivo, ma non infliggerlo a persone che non hanno possibilità di sopravvivere ad esso un tempo congruo, con una qualità di vita compatibile con la loro visione della propria dignità. Occorre per questo fare un altro passo verso il coinvolgimento del paziente nel percorso di cura, grande sfida per la medicina di questo secolo. Un passo che comporta: a) di partire da una corretta informazione, che prospetti rischi e benefici per la salute fisica e mentale di ciascuno; b) di concertare le cure con il paziente, con rispetto per il suo mondo interiore e le sue possibilità di comprensione, c) di dargli la possibilità di esprimere le proprie preferenze (anche con un po’ di anticipo rispetto alla situazione concreta della scelta terapeutica, soprattutto in considerazione dell’incidenza delle demenze senili oggi).
Le cure palliative progressive devono essere scelte insieme al medico di medicina generale, o con l’equipe di riferimento. Devono diventare, quindi, competenza diffusa, non riservata ai professionisti della palliazione.
E i cittadini, che cosa possono fare per facilitare questo processo di adeguamento della medicina ai suoi stessi risultati? Affinché sia possibile morire in tarda età senza accanimento terapeutico e accompagnati da cure palliative? Dobbiamo, a mio modo di vedere, smettere di sollecitare la medicina difensiva, e di illuderci che il medico sia onnipotente (non lo è); imparare che c’è il limite e che siamo mortali; non sostituirci ai nostri anziani malati nelle decisioni terapeutiche (e neppure nelle decisioni di fine vita); smettere di dire agli anziani che guariranno quando sappiamo che moriranno; rispettare chi ha molto vissuto e ha esperienza, anche se ha meno sapere di noi; pretendere di essere coinvolti nella cura della nostra malattia.
Vi sembra poco? Io credo che si tratti di un’importante rivoluzione culturale, che i medici non potranno fare da soli, senza i pazienti, i familiari, i cittadini, insomma…noi. Che ne pensate?