Distinguiamo bene i termini: limitazione delle cure non è eutanasia, di Maria Teresa Busca
In Italia il dibattito sulle materie eticamente sensibili, e quindi anche sulle questioni riguardanti il fine vita, oscilla tra una radicale ideologizzazione e il silenzio. Dilaga la spettacolarizzazione mediatica della malattia e della morte, che tende a sostituire la necessaria profondità e complessità della riflessione. Questa situazione si accompagna a una confusione di termini, significati e contenuti, sia nell’ambito dell’informazione sia in quello della politica: sovente espressioni quali “limitazione delle cure”, “eutanasia” e “suicidio assistito” vengono tutte ricomprese nella parola-contenitore “eutanasia”.
Al contrario, un approccio ragionato, basato sulla condivisione del significato preciso che si intende dare alle parole si dimostra l’unico davvero utile a compiere scelte individuali meditate e consapevoli alla luce del principio di autodeterminazione.
Infatti, quando in ambito scientifico o giuridico si parla di limitazione delle cure, eutanasia e suicidio assistito s’intendono concetti del tutto diversi tra loro. Tali concetti implicano scelte compiute da persone affette da malattie differenti per natura e gravità, attuate con differenti responsabilità e implicazioni morali. Ma qual è l’obiettivo primario della riflessione bioetica, se non fornire strumenti per prendere decisioni in maniera razionale, autonoma e responsabile? Per questa ragione è necessario prima di tutto fare chiarezza, esaminando attentamente tali differenze per avviare una discussione aperta e non ideologica sul tema del fine vita.
Per “limitazione delle cure” s’intende l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che risultino eticamente sproporzionati e/o clinicamente inappropriati. Sono eticamente sproporzionati i trattamenti che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi. Gli oneri s’intendono come oggettivi, cioè previsti dalla scienza medica – gli effetti collaterali dei trattamenti – o soggettivi, quelli percepiti come tali dal malato. Sono invece clinicamente inappropriati i trattamenti che non corrispondono più ai criteri di efficacia e appropriatezza clinica, non essendo più in grado di modificare positivamente la prognosi (guarigione o stabilizzazione della malattia).
In Italia, la limitazione delle cure è prevista dall’articolo 16 del Codice di Deontologia Medica e può attuarsi in qualsiasi contesto assistenziale.
Una limitazione delle cure può avvenire a seguito della decisione del malato che esprime insindacabilmente il suo dissenso rispetto all’inizio delle cure o che, altrettanto insindacabilmente, ritira il suo consenso alla loro prosecuzione, come garantito dall’articolo 32 della Costituzione (che tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, garantendo cure gratuite agli indigenti e stabilendo che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge). Oppure per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé, quando le cure e/o i supporti vitali, non contrastando più validamente il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta. In quest’ultima situazione i fatti salienti sono: la liceità morale di evitare inutili sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire scientificamente provata; il limite sperimentato della cura; l’inutilità della sua prosecuzione.
La causa della morte in questo caso è dunque la malattia. La limitazione delle cure non viene quindi posta in essere per abbreviare la vita del malato; in ciò differisce dall’eutanasia o dal suicidio assistito, che invece hanno lo scopo di causare nel più breve tempo possibile e in maniera indolore la morte del paziente, ma per lasciare che si concluda un processo di morte causato da una malattia non più guaribile o stabilizzabile.
Il senso dell’agire clinico non si colloca tra “fare” o “non far nulla”, ma tra “fare” o “fare altro” (cfr. a tal proposito il documento prodotto dal Cortile dei Gentili e presentato al Senato il 17 settembre 2015, Linee propositive per un diritto della relazione di cura e delle decisioni di fine vita)
Vale a dire, l’agire clinico deve saper abbandonare i trattamenti sproporzionati per garantire invece una presa in carico globale del malato, finalizzata a migliorare la qualità della parte finale della sua vita, riducendone la sofferenza psicologica e fisica e risparmiandogli la solitudine, considerandolo vivo fino alla fine e meritevole di solidarietà e di rispetto per la globalità della sua persona attraverso le cure palliative.
Nel documento Linee propositive è inoltre evidenziata la necessità di riconoscere che la dignità della persona è da individuare proprio nella sua libertà di scegliere il rifiuto di cure sproporzionate, preferendo un accompagnamento di tipo palliativo. Questa considerazione è importantissima ancora una volta rispetto alla necessità di non confondere questa scelta con quella dell’eutanasia e del suicidio assistito. Nel rispetto della diversità delle impostazioni teoriche, il documento rappresenta un concreto esempio di come sia possibile, con sincerità e rigore, non solo ascoltarsi, ma anche ritrovarsi in qualità di appartenenti a un’unica comunità.
Voi, quando leggete sui quotidiani a proposito dell’eutanasia, siete coscienti di queste differenze di significato? O ritenete che spesso non sia chiaro il senso in cui si parla di eutanasia a livello mediatico? Mi piacerebbe sapere quali idee avete quando sentite parlare di “eutanasia” nei discorsi pubblici e se tali idee tengono conto della distinzione tra limitazione della cura, eutanasia e suicidio assistito.
Brava Marina, hai fatto bene a riproporre questo argomento. Volevo proprio scriverti quando, il 5/10, è stata pubblicata su Repubblica un’intervista ai genitori di Davide, il cui caso era stato ricordato qualche giorno prima da Veronesi, sempre sullo stesso giornale. Poi ho lasciato perdere, anche perché di questo sie era già molto parlato nel tuo blog.
Davide è stato un caso clamoroso e dolorosissimo di malasanità, ma anche “mala” giustizia, cui si aggiunge l’orrendo intervento a piedi tesi di un’orrenda politicizzazione.
Davide era nato con la Sindrome di d Potter, praticamente senza reni e senza apparato urinario, destinato in breve tempo a morte certa (questione di giorni). Altro drammatico antefatto: la madre era stata avvisata della malformazione e voleva abortire, ma ebbe una lite col suo ginecologo, ovviamente contrario per motivi religiosi, e lasciò perdere. Quando il bambino nacque, si tentò di tutto: fu fatto arrivare un chirurgo dal Gaslini che disse “non saprei nemmeno da dove cominciare”. Lo stesso medico dell’ospedale commentò “non resta che aspettare”. Ma pochi giorni dopo chiese ai genitori l’autorizzazione per la dialisi. Questi chiesero qualche ora per decidere. Qui mi affido alle loro stesse parole: “La notte arrivarono i carabinieri, in divisa. Ci comunicarono che il tribunale, d’urgenza, su segnalazione del medico, ci aveva tolto la patria potestà perché noi non volevamo curare nostro figlio”. Non è finita, il fatto scatenò le solite italiche polemiche e un deputato dell’Udc, Luca Volonté, arrivò a scrivere che i genitori volevano sacrificare loro figlio perchè “non perfetto”. Le cure, in ogni caso, proseguirono, e Davide morì pochi giorni dopo. E’ anche da sottolineare che Davide sopravvisse per 80 giorni, mentre, prima di lui, il caso più longevo era solo di 38 giorni. No comment.
Per tornare al tema, l’unico errore dei genitori di Davide in quell’intervista è stato di invocare un dibattito serio sull’eutanasia. Repubblica stessa, nel sottotiolo, riporta questo termine, mentre si trattava di un caso palese di interruzione delle cure e dell’accanimento terapeutico sancito dalla legge. Questo per quanto riguarda la stampa, che Marina giustamente censura. Ma andrei anche oltre. L’ideologia portata all’estremo s’impadronisce anche dei medici: basti guardare ai casi vergognosi dell’obiezione di coscienza riguardo l’aborto ma anche per la “pillola del giorno dopo”. C’è da capire anche che il compito dei medici è di curare, e spesso vivono la malattia incurabile come una sconfitta. E infatti, al riguardo, spesso sono i peggiori pazienti quando devono improvvisarsi medici per se stessi.
A questo si aggiunge l’ideologia furiosa di molta politica che non esita a calpestare la dignità del dolore altrui per un’un egoistica – e ignorante – affermazione della propria (presunta) etica. Non risulta infine che il ministro della sanità dell’epoca (eravamo nel 2008, quindi non so risalire), abbia aperto un’inchiesta su quell’ospedale, né chi di dovere l’abbia fatto su quel tribunale.
Davide resta un caso doloroso e sconfortante della profonda ignoranza della nostra Italia.