Quali hospice per il futuro? di Marina Sozzi
Nella mia vita ho visitato molti hospice, alcuni sono all’interno di strutture ospedaliere, altri hanno la fortuna di godere di una posizione meravigliosa, di essere all’interno di ex ville, con parchi ricchi di alberi secolari e vista di grande bellezza. Gli hospice non sono tutti uguali, alcuni somigliano un po’ troppo a reparti ospedalieri, altri riescono a dare l’idea della casa che vogliono il più possibile mimare.
Quasi tutti, però, sono spesso difficili da trovare, decentrati rispetto al centro della città, e all’interno degli spazi dedicati si fa solo assistenza a chi sta lasciando la vita. Certo, talvolta all’interno degli hospice ci sono attività culturali, musicoterapia o arteterapia, Pet Theraphy e altre iniziative. A mio modo di vedere non basta.
Forse è giunto il momento di ripensare un po’ la nostra concezione dell’hospice, così come dobbiamo imperativamente ripensare le RSA dove muoiono i nostri anziani.
Il punto è che tutte queste strutture risentono un po’, nonostante le migliori intenzioni (soprattutto delle cure palliative), della difficoltà che la nostra cultura ha nel rapportarsi con la morte. La morte è sempre marginalizzata, e negli hospice entrano solo gli addetti ai lavori, medici palliativisti, infermieri di cure palliative, e gli altri professionisti dedicati (oltre ai familiari e ai volontari, naturalmente, pandemia permettendo).
E se immaginassimo invece di collocare un hospice nel cuore pulsante di una città? Di affiancare all’hospice, nella stessa struttura architettonica, le famose case della salute dei medici di famiglia di cui tanto si parla, ambulatori di medici specialisti, ambulatori di cure palliative simultanee o precoci, e centri di formazione sanitaria e culturale, o comunque luoghi frequentati da molte persone per svariate ragioni?
Lo scopo sarebbe molteplice: ottenere che altre specialità mediche si confrontino quotidianamente con l’approccio palliativo, vedendo i colleghi lavorare e incontrandoli alle macchinette del caffè; rendere più facile, per i medici di medicina generale, attivare per tempo le cure palliative; fare in modo che i cittadini passino frequentemente di fronte all’hospice, ed entrino nella struttura anche per fare altre cose (vedere il loro medico di famiglia o altri curanti, sentire un concerto o una conferenza), così da favorire una maggiore familiarità con la fine della vita; contribuire alla diffusione delle cure palliative precoci e simultanee.
I numeri ci dicono che il bisogno di cure palliative sta crescendo in modo esponenziale nel mondo, e in particolare nei paesi in cui c’è una lunga aspettativa di vita e quindi molte persone anziane e fragili.
Invece di parlare in modo aulico e teorico di Death education (peraltro utile e sacrosanta, specie se si va a farla nelle scuole), perché non proviamo a rivoluzionare i luoghi in cui siamo soliti nascondere i malati gravi e i morenti?
Le cure palliative dovrebbero continuare la loro opera di istanza critica nei confronti della biomedicina, ma anche nei confronti di loro stesse, per evitare il rischio di diventare solo una branca della medicina (a maggior ragione ora che c’è una Scuola di specialità in cure palliative), e riuscire invece a progettare sempre nuovi modi di integrare la morte nella vita.
Che ne pensate?