I riti funebri e la pandemia, di Marina Sozzi
A chi segue questo blog da un certo numero di anni, sarà familiare il concetto di crisi rituale: da diversi decenni, nel nostro Paese (ma non solo) siamo di fronte a un diffuso disagio. Più volte abbiamo notato, prima della pandemia, come i riti della tradizione cattolica, in un mondo molto secolarizzato, abbiano perso l’efficacia e il potere consolatorio che avevano in passato, quando la preoccupazione per la vita ultraterrena era più rilevante. Viceversa, si è sentita molto l’esigenza di commemorare in modo più personale coloro che ci hanno lasciati, ricordando il loro ruolo, i loro affetti, il loro lascito, il loro contributo alla vita terrena.
Alcuni parroci hanno accolto questa istanza dei parenti, alcuni crematori hanno costruito cerimonie laiche, e il profilo di una nuova figura professionale, il cerimoniere, comincia a farsi strada. In tutto questo, una sottile vena antiritualista si era comunque infiltrata nelle menti dei nostri contemporanei, soprattutto relativamente all’usanza di recarsi al cimitero. «Preferisco ricordarlo com’era in vita» è una frase frequentemente ascoltata nelle interviste su questi temi, e si è parlato di una memoria della mente e del cuore.
La nostra non è certamente la prima crisi rituale della storia europea. Una molto più violenta si è avuta alla fine del Settecento, quando lo spostamento dei cimiteri fuori le mura per la scelta igienista di alcuni sovrani illuminati aveva impedito a chi aveva perduto un congiunto di seguire il feretro fino alla sepoltura. In quel periodo, inoltre, la nascita dell’individuo moderno aveva messo in crisi la prassi della fossa comune. Fu Napoleone a dare una spinta importante per la risoluzione della crisi funebre, istituendo la sepoltura individuale e dando origine ai cimiteri monumentali.
Ora, che cosa sta accadendo durante l’epidemia di Covid-19? Il divieto, per mantenere il distanziamento sociale, di celebrare riti funebri e di recarsi al cimitero ha avuto un impatto fortissimo sui cittadini italiani. Unito all’impossibilità di accompagnare i propri cari alla fine della vita, ha determinato sovente dei lutti pieni di rabbia e disperazione, che ci inducono a ripensare il panorama funebre contemporaneo alla luce del Covid -19.
La prima osservazione da fare riguarda la sottovalutazione dell’importanza del rito funebre che è stata fatta. Occorre ricomprendere l’insostituibile funzione del rito. Il rito lenisce la ferita che la morte infligge nel corpo sociale, ribadendo che la vita può continuare nonostante la morte; il rito mette ordine, laddove la morte minaccia la vita in quanto irruzione in essa del caos; il rito ci ricorda che la morte di un membro della società è un evento sociale, non un avvenimento individuale o familiare che si vive in solitudine; il rito assegna una collocazione al defunto (qualunque sia questa collocazione, tra gli antenati, in un altro mondo, o nel ricordo di chi l’ha conosciuto); il rito ci permette di smaltire il corpo morto, ma senza venir meno alla consapevolezza che quel corpo è stato persona, ancora presente nella mente dei suoi cari. Il rito, infine, dà origine al periodo del lutto, legittimandolo.
E accanto al rito occorrono luoghi funebri accoglienti, rassicuranti, pieni di bellezza (un tema, anche questo, che abbiamo trattato e che tratteremo in futuro)
E’ quindi più chiaro perché la mancanza di un rito funebre e l’impossibilità di recarsi al cimitero abbia sconvolto il rapporto con la morte dei nostri connazionali. Forse l’impatto del dolore senza nome che è entrato nelle famiglie in lutto è stato sottovalutato dalle autorità chiamate a stabilire le regole in questo terribile momento di pandemia. Forse si sarebbe potuto cercare di trovare un modo per non cancellare i riti funebri. E tuttavia, del senno del poi…
La prima considerazione che viene in mente è che il Covid – 19 abbia acceso la luce sul bisogno di riti che abbiamo. E forse potrebbe essere questa dolorosa contingenza a spingerci a modificare i nostri riti per renderli più efficaci, più adeguati ai bisogni contemporanei. Senza lasciarci trascinare dalle mode, dalla dimensione “inventiva” e creativa, in cui ciascuno costruisce il proprio addio da bricoleur.
Restando ancorati a ciò che ha una storia e radici nella coscienza collettiva, religioso o laico che sia, occorre dare spazio alla dimensione personale e individuale. Nella nostra cultura la visione dell’individuo come un unicum è molto forte, e nel commiato c’è bisogno di raccontare chi è stata la persona che è morta, cosa ha realizzato nella vita, se ha saputo amare, quale lascito etico e affettivo ci consegna.
E proprio ragionando su questa esigenza, si può riflettere a cosa si può fare per lenire il dolore di coloro che non hanno potuto celebrare riti funebri.
Ci vorrà una grande cerimonia collettiva, è indubbio. Mantenendo le debite differenze, qualcosa di simile a ciò che è stato fatto dopo la Prima guerra mondiale, con la celebrazione del milite ignoto. Tuttavia, non solo grazie a Dio non siamo in guerra, ma conosciamo i nomi di coloro che sono morti. Dovremo pronunciarli, questi nomi. Mi viene in mente a Gerusalemme, a Yad Vashem, l’edificio che conserva la memoria dei bambini morti nella Shoah. Si entra in una camera oscura attraverso un cunicolo che ci fa sprofondare nella terra, la stanza è fiocamente illuminata da lumini che si accendono nell’oscurità, e per ventiquattro ore al giorno una registrazione pronuncia i nomi dei bambini uccisi: il nome, il paese di provenienza, l’età. Si esce con un’emozione travolgente. La forza dei nomi. La pandemia non ha nulla a che fare con la Shoah, ma dovremo ricordarci la forza commemorativa del pronunciare i nomi.
Inoltre, accanto a una grande cerimonia commemorativa, ci vorranno tante piccole occasioni locali di condivisione della memoria. Alcune istituzioni, come l’associazione Maria Bianchi, ne stanno già proponendo alcune, che potete leggere qui, anche per organizzarne e immaginarne altre, in altri luoghi del Paese, soprattutto i più colpiti dal Covid-19.
Cosa ne pensate? Ritenete anche voi che sia il momento di imprimere un cambiamento nella nostra ritualità funebre? Pensate che ci voglia una cerimonia collettiva per coloro che abbiamo perso nella pandemia? Come la fareste?