Pianificare le cure: nuovi strumenti per il dialogo tra operatori e pazienti, di Cristina Vargas
La Pianificazione Condivisa delle Cure (PCC) rappresenta uno strumento essenziale nella tutela dell’autodeterminazione e della libertà di scelte delle persone affette da patologie croniche complesse e inguaribili, caratterizzate da processi degenerativi irreversibili, ma quantomeno in parte prevedibili, con una prognosi infausta e medio-breve termine.
Nel concreto, la PCC è un documento dinamico, redatto in modo congiunto da operatori e pazienti, che viene inserito nella cartella clinica e sul quale si può tornare a più riprese. A differenza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, che possono essere redatte in modo autonomo dalla persona in qualsiasi momento del suo percorso di vita, la Pianificazione Condivisa delle Cure rappresenta un tassello importante nelle fasi avanzate della presa in carico e si sviluppa nel contesto di una relazione terapeutica già instaurata da tempo.
Nell’ambito delle Cure palliative e nelle realtà che si occupano della presa in carico di malattie neurodegenerative (come la Sclerosi Laterale Amiotrofica, o la Sclerosi Multipla) vi è da tempo una forte consapevolezza della necessità di pianificare anticipatamente il percorso. In altri ambiti, invece, la PCC rimane ancora oggi largamente sottoutilizzata. In ogni caso, negli ultimi anni sono stati fatti notevoli passi avanti, al punto che in numerose realtà è ormai assodato che la PCC debba essere usata in modo generalizzato, e ci si comincia a interrogare sul momento e sul modo migliore di proporre questo strumento.
Per quanto riguarda il quando, la letteratura è concorde: il prima possibile.
Per quanto riguarda il come, l’esperienza maturata finora in Italia e, soprattutto, all’estero insegna che la stesura di una buona PCC non può essere lasciata né al caso, né alla predisposizione comunicativa individuale del singolo medico (o psicologo) che si trova ad affrontare la questione con il paziente. Al contrario, essa andrebbe programmata garantendo spazi, tempi e modalità adeguate a facilitare la comunicazione.
Nel modo anglosassone ci sono diversi strumenti nell’ambito dell’Advance Care Planning, che oggi sono usati a livello internazionale. A titolo di esempio possiamo menzionare la guida Universal Principles for Advanced care Planning sottoscritta dal Servizio Sanitario Pubblico Inglese (National Health Service – England) e da numerose altre realtà pubbliche e private con l’obiettivo di promuovere un approccio coerente alla pianificazione anticipata delle cure nel contesto britannico.
A mio avviso, uno degli strumenti più interessanti e innovativi che ho avuto modo di conoscere, è il Go-Wish Game, un gioco basato sulle carte che offre una via semplice e leggera per avvicinare il tema delle scelte di fine vita. Il set italiano è composto da 39 carte (ci sono 36 carte nella versione inglese, 41 in quella spagnola). 38 di queste carte contengono enunciati semplici, chiari e allo stesso tempo profondi su come ciascuno di noi vorrebbe vivere la fase finale della propria vita. La trentanovesima carta è il Jolly, che lascia campo libero a pensieri e bisogni che non sono presenti nel mazzo, ma che sono significativi per la persona.
Il Go-Wish Game è stato sviluppato nei primi anni duemila da Elizabeth Merkin e altri ricercatori all’interno dell’organizzazione no-profit Coda Alliance ed è stato recentemente tradotto, adattato al contesto culturale italiano e validato da un gruppo di ricercatrici e ricercatori (fra cui Marta Perin, Silvia Tanzi, Carlo Peruselli e Ludovica De Panfilis). Questo gruppo ha anche sviluppato un percorso formativo rivolto a professionisti sociosanitari.
Uno dei primi step della formazione consiste nell’usare il Go-Wish in prima persona. Non avendo potuto frequentare il corso in presenza, ho chiesto a una mia cara amica (che si occupa di tutt’altro, ma è molto aperta a discutere di questioni tanatologiche) di cimentarsi con me nel particolare compito di pensare insieme alle fasi finali della nostra vita: il Go-Wish, infatti, non è un “solitario” – per restare nel linguaggio del gioco – ma un mezzo per facilitare la comunicazione, il confronto e la condivisione su temi che spesso non sono facili da affrontare.
Il gioco – perché è proprio come gioco, inteso nel senso più bello e creativo della parola, che questo mazzo di carte è stato ideato – ha moltissime varianti, ma la versione più diffusa (e più usata nella clinica) consiste nel dividere le carte in tre mazzi: in un mazzo andranno le carte con le questioni più importanti; in un altro quelle parzialmente importanti e, nel terzo mazzo, quelle meno o per nulla importanti. Infine, si arriva a individuare dieci carte che sintetizzano le priorità della persona in ambiti che spaziano fra questioni prettamente fisiche (poter respirare bene; non essere attaccato a una macchina; essere libero dal dolore), questioni relazionali (aver vicino i miei amici più cari; avere la mia famiglia vicino), spirituali (essere in pace con Dio), pratiche (avere in ordine le mie finanze), psicologiche (conservare la mia lucidità mentale) e altro ancora.
A turno, ognuna ha scelto le proprie carte e ha spiegato all’altra il senso personalissimo che abbiamo dato a ogni frase. L’effetto è stato sorprendente: nonostante la nostra lunga conoscenza reciproca, molte cose ci hanno stupite e abbiamo entrambe realizzato che, da sole, non avremmo potuto prevedere le priorità dell’altra. Se mi fossi trovata a fare da portavoce delle sue decisioni in una situazione reale, avrei commesso numerosi (ancorché benintenzionati) errori di inferenza!
Sia in qualità di operatori, sia come caregiver, amici o parenti, il rischio di sovrapporre le nostre convinzioni e i nostri valori a quelli di un’altra persona è costantemente in agguato. Oltre a essere tutelante per la persona malata, la PCC è quindi una risorsa fondamentale per guidare le decisioni dei curanti in merito all’attuazione o alla limitazione dei trattamenti (soprattutto invasivi) e per caricare di significato concetti ampi e non univoci, come “dignità” e “proporzionalità”. Quale che sia lo strumento scelto per avviare un dialogo aperto e autentico, pianificare le cure in modo condiviso vuol dire infatti dare spazio ai vissuti soggettivi del paziente, al fine di comprendere quali siano i suoi bisogni, i suoi desideri e le sue priorità. Solo su questa base si può strutturare un iter di cura condiviso, centrato sulla dignità persona e sul suo diritto all’autodeterminazione.
Cosa ne pensate? Conoscevate il Go-Wish Game?