I virtual influencer. Le relazioni umane con persone inesistenti, di Davide Sisto
Da qualche mese sto studiando con curiosità l’ultima bizzarria della nostra realtà digitale: i virtual influencer. Si tratta di persone che, come Chiara Ferragni, mostrano la loro vita quotidiana su Instagram, Tik Tok e YouTube, sponsorizzando i marchi delle aziende di moda e portando avanti battaglie nel campo dei diritti civili. A differenza, però, della nota imprenditrice milanese non esistono in carne e ossa. Sono il perfetto risultato della tecnologia CGI (computer-generated imagery), con la quale vengono creati personaggi inesistenti dotati, però, di una specifica personalità e visione del mondo. Si contano già oggi diverse centinaia di virtual influencer, oltre a numerosi siti web – Virtual Beings, per esempio – intenti a sottolinearne le virtù nello spazio pubblico. Il nome più famoso è quello di Miquela Sousa, modella diciannovenne americano-brasiliana, che su Instagram ha circa tre milioni di followers. Il 28 giugno 2018 il Time l’ha inclusa tra le venticinque persone più influenti su internet, insieme a Donald Trump, Rihanna, Kanye West. In Italia i primi tentativi di creare una virtual influencer portano il nome di Nefele, nata a Torino, e di Zaira, creata da Buzzoole a Milano. Alcuni sono stati costruiti esclusivamente per finalità politiche, sociali e culturali: Kami, per esempio, soffre di Trisomia 21 e il suo compito consiste nel raccontare il disturbo che l’affligge, cercando di liberare la rete da pregiudizi e stereotipi.
Il fenomeno dei virtual influencer, che fa breccia soprattutto nella Generazione Z, ha cominciato a diffondersi in Asia negli ultimi anni e oggi produce un mercato pari a quasi 14 miliardi di dollari. Gartner prevede che entro il 2025 il 30% del budget investito nell’ambito del marketing sarà finalizzato alla creazione e all’uso di virtual influencer, con un giro di affari che toccherà gli 800 miliardi di dollari. Si tenga conto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne ha già utilizzato uno, Knox Frost, per dare informazioni agli utenti della Rete riguardo alla pandemia da Covid-19. Un esempio significativo per capire che questo fenomeno è tutt’altro che una mera bizzarria di poco conto.
Ora, perché parlare di persone non esistenti all’interno di un blog come il nostro? Innanzitutto, perché evidenzia un ulteriore aspetto della nostra attuale esistenza, i cui risvolti nel campo della formazione e dell’educazione sono chiari. Si parla molto spesso di vita “onlife” per mostrare quanto sia obsoleta la distinzione tra online e offline, virtuale e reale. Oggi, ciascuno di noi vive all’interno di un mondo in cui ciò che facciamo online condiziona in maniera oggettiva la nostra quotidianità nella dimensione offline. La morte è quell’evento che interrompe l’ibridazione soggettiva: terminata la vita offline, continua invece quella online tramite la sopravvivenza passiva dei propri profili social, condizionando inevitabilmente l’elaborazione del lutto da parte di chi ci ha amato. Con i virtual influencer si fa un passo in più: vengono create a computer persone che esistono solo online, che non hanno un corpo, che sono prive di ombra, soprattutto che non invecchiano né muoiono. Persone eterne che – si badi bene – non nascondono affatto ai loro followers la loro condizione di esseri non fisicamente esistenti. Chi interagisce sui social con loro sa, anzi pretende, di conversare con “amici immaginari”, dotati però di una presenza digitale molto reale. I virtual influencer sono il punto di arrivo di un lungo processo che, parallelamente alla digitalizzazione della nostra società, ci ha abituato a creare relazioni interpersonali con simulazioni a computer di esseri umani, animali, oggetti o pseudo-alieni: dal Tamagochi agli avatar nei videogiochi, dai bot sui social media alle riproduzioni virtuali dei morti (griefbot). Sterminati e problematici sono, ovviamente, gli orizzonti di riflessione politica, sociale e culturale. Così come è particolarmente interessante il fatto di utilizzare persone non esistenti per le sensibilizzazioni pubbliche in ambito sanitario. In relazione al fine vita, queste novità – particolarmente, sentite dalle generazioni più giovani – lambiscono il territorio in cui non si vuole mai interrompere la dialettica tra i presenti e gli assenti, in cui alcuni desiderano rendere eterne le proprie relazioni, in cui si accetta a fatica la mortalità di sé e dei propri cari. Lo spazio contenuto del blog impedisce un’unica analisi approfondita del fenomeno; tuttavia, mi pare molto utile cominciare a raccontare questa novità emergente, ancora poco conosciuta da chi – per ragioni anagrafiche, ma non solo – ignora la particolarità delle interazioni che produce. È importante non rigettare subito questo fenomeno, in quanto appare a primo acchito inquietante o non facilmente razionalizzabile. Bisogna maturare la capacità di cogliere la trasformazione antropologica che contribuisce a determinare, di modo da disporre progressivamente degli strumenti necessari per capirne le intenzioni, gli effetti, le motivazioni.
Avete mai sentito parlare di virtual influencer? E cosa ne pensate? Attendiamo le vostre riflessioni.