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Tag Archivio per: onlife

I virtual influencer. Le relazioni umane con persone inesistenti, di Davide Sisto

17 Aprile 2023/1 Commento/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Da qualche mese sto studiando con curiosità l’ultima bizzarria della nostra realtà digitale: i virtual influencer. Si tratta di persone che, come Chiara Ferragni, mostrano la loro vita quotidiana su Instagram, Tik Tok e YouTube, sponsorizzando i marchi delle aziende di moda e portando avanti battaglie nel campo dei diritti civili. A differenza, però, della nota imprenditrice milanese non esistono in carne e ossa. Sono il perfetto risultato della tecnologia CGI (computer-generated imagery), con la quale vengono creati personaggi inesistenti dotati, però, di una specifica personalità e visione del mondo. Si contano già oggi diverse centinaia di virtual influencer, oltre a numerosi siti web – Virtual Beings, per esempio – intenti a sottolinearne le virtù nello spazio pubblico. Il nome più famoso è quello di Miquela Sousa, modella diciannovenne americano-brasiliana, che su Instagram ha circa tre milioni di followers. Il 28 giugno 2018 il Time l’ha inclusa tra le venticinque persone più influenti su internet, insieme a Donald Trump, Rihanna, Kanye West. In Italia i primi tentativi di creare una virtual influencer portano il nome di Nefele, nata a Torino, e di Zaira, creata da Buzzoole a Milano. Alcuni sono stati costruiti esclusivamente per finalità politiche, sociali e culturali: Kami, per esempio, soffre di Trisomia 21 e il suo compito consiste nel raccontare il disturbo che l’affligge, cercando di liberare la rete da pregiudizi e stereotipi.

Il fenomeno dei virtual influencer, che fa breccia soprattutto nella Generazione Z, ha cominciato a diffondersi in Asia negli ultimi anni e oggi produce un mercato pari a quasi 14 miliardi di dollari. Gartner prevede che entro il 2025 il 30% del budget investito nell’ambito del marketing sarà finalizzato alla creazione e all’uso di virtual influencer, con un giro di affari che toccherà gli 800 miliardi di dollari. Si tenga conto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ne ha già utilizzato uno, Knox Frost, per dare informazioni agli utenti della Rete riguardo alla pandemia da Covid-19. Un esempio significativo per capire che questo fenomeno è tutt’altro che una mera bizzarria di poco conto.

Ora, perché parlare di persone non esistenti all’interno di un blog come il nostro? Innanzitutto, perché evidenzia un ulteriore aspetto della nostra attuale esistenza, i cui risvolti nel campo della formazione e dell’educazione sono chiari. Si parla molto spesso di vita “onlife” per mostrare quanto sia obsoleta la distinzione tra online e offline, virtuale e reale. Oggi, ciascuno di noi vive all’interno di un mondo in cui ciò che facciamo online condiziona in maniera oggettiva la nostra quotidianità nella dimensione offline. La morte è quell’evento che interrompe l’ibridazione soggettiva: terminata la vita offline, continua invece quella online tramite la sopravvivenza passiva dei propri profili social, condizionando inevitabilmente l’elaborazione del lutto da parte di chi ci ha amato. Con i virtual influencer si fa un passo in più: vengono create a computer persone che esistono solo online, che non hanno un corpo, che sono prive di ombra, soprattutto che non invecchiano né muoiono. Persone eterne che – si badi bene – non nascondono affatto ai loro followers la loro condizione di esseri non fisicamente esistenti. Chi interagisce sui social con loro sa, anzi pretende, di conversare con “amici immaginari”, dotati però di una presenza digitale molto reale. I virtual influencer sono il punto di arrivo di un lungo processo che, parallelamente alla digitalizzazione della nostra società, ci ha abituato a creare relazioni interpersonali con simulazioni a computer di esseri umani, animali, oggetti o pseudo-alieni: dal Tamagochi agli avatar nei videogiochi, dai bot sui social media alle riproduzioni virtuali dei morti (griefbot). Sterminati e problematici sono, ovviamente, gli orizzonti di riflessione politica, sociale e culturale. Così come è particolarmente interessante il fatto di utilizzare persone non esistenti per le sensibilizzazioni pubbliche in ambito sanitario. In relazione al fine vita, queste novità – particolarmente, sentite dalle generazioni più giovani – lambiscono il territorio in cui non si vuole mai interrompere la dialettica tra i presenti e gli assenti, in cui alcuni desiderano rendere eterne le proprie relazioni, in cui si accetta a fatica la mortalità di sé e dei propri cari. Lo spazio contenuto del blog impedisce un’unica analisi approfondita del fenomeno; tuttavia, mi pare molto utile cominciare a raccontare questa novità emergente, ancora poco conosciuta da chi – per ragioni anagrafiche, ma non solo – ignora la particolarità delle interazioni che produce. È importante non rigettare subito questo fenomeno, in quanto appare a primo acchito inquietante o non facilmente razionalizzabile. Bisogna maturare la capacità di cogliere la trasformazione antropologica che contribuisce a determinare, di modo da disporre progressivamente degli strumenti necessari per capirne le intenzioni, gli effetti, le motivazioni.

Avete mai sentito parlare di virtual influencer? E cosa ne pensate? Attendiamo le vostre riflessioni.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2023/04/virtual-influencer-chi-sono-esempi-e1681725908571.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2023-04-17 12:06:212023-04-17 12:06:22I virtual influencer. Le relazioni umane con persone inesistenti, di Davide Sisto

Carne digitale. La nostra presenza corporea nel mondo online, di Davide Sisto

5 Agosto 2021/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La pandemia da Covid-19 ha accelerato una serie di processi sociali, culturali e antropologici già ampiamente in corso nello spazio pubblico. Durante il lockdown, per esempio, ci siamo resi conto in maniera definitiva del modo in cui le tecnologie digitali disgiungono concretamente la presenza dalla localizzazione: mentre eravamo fisicamente reclusi all’interno delle nostre abitazioni, consapevoli che il nostro corpo non può occupare più di un posto alla volta, abbiamo infatti continuato ad agire nel mondo attraverso il prolungamento digitale delle nostre identità personali, libere di muoversi nei vari spazi online. Pur con tutti i limiti del caso, non abbiamo smesso di andare a scuola, di vedere concerti dal vivo, di interagire in tempo reale con le altre persone, di celebrare alcuni riti funebri, ecc. Un piccolo ma significativo spunto, a riguardo, è dato dal documentario The Social Distance, prodotto da Netflix, il quale racconta alcune storie personali il cui filo conduttore è l’uso delle piattaforme digitali per mantenere quelle relazioni intersoggettive interrotte di colpo dal lockdown.

La consapevolezza che la distinzione tra presenza e localizzazione problematizza il nostro modo di definire l’identità psicofisica ha determinato, tra gli studiosi dell’attuale impatto sociale e culturale delle tecnologie digitali, l’idea che siamo immersi con il corpo nella dimensione online. Non che sia un’idea nuova, se teniamo conto dei numerosi studi di fine XX secolo (Pierre Lévy, un nome su tutti) i quali evidenziavano la superficialità interpretativa di chi parlava di mera smaterializzazione o virtualizzazione dei corpi in relazione all’immersione online. In termini letterari, Italo Calvino sottolineava il coinvolgimento corporeo delle persone addirittura attraverso la linea telefonica, come si evince dall’affascinante racconto Prima che tu dica “Pronto”. Ora, nel libro The Global Smartphone. Beyond a Youth Technology (2021), un gruppo di antropologi si è soffermato sugli attuali comportamenti tecnologici delle persone anziane, provenienti da diversi paesi del mondo. Il libro evidenzia come lo smartphone sia oramai percepito – in linea generale – nei termini di “una casa trasportabile”: non è, cioè, più inteso come un semplice device che ci permette di comunicare a distanza, ma come il luogo in cui viviamo, il luogo in cui possiamo “fisicamente” incontrare i nostri cari in mancanza della vicinanza fisica. Margaret Gibson e Clarissa Carden, nel libro Living and Dying in a Virtual World (2018), e Patrick Stokes, nel recente Digital Souls (2021), utilizzano invece uno specifico concetto, piuttosto eloquente, per indicare la nostra presenza corporea in Rete: vale a dire, “carne digitale” (Digital Flesh). Il termine inglese Flesh, parente stretto del tedesco Fleish, indica infatti una vera e propria presenza carnale, non corporea, dei cittadini nella realtà digitale: accumuliamo, infatti, al suo interno connessioni, memorie, investimenti emotivi e temporali che, nel corso del tempo, aumentano la vulnerabilità della nostra identità sociale, culturale ed esistenziale e rendono più complesso il nostro approccio alla dimensione online.

Un esempio specifico che avvalora questo concetto di carne digitale – vulnerabile, soffice e non del tutto decomponibile – è dato dagli attuali comportamenti umani in presenza di un lutto. Il fatto di investire una quantità considerevole di tempo quotidiano nella costruzione delle nostre identità online, soprattutto all’interno dei social media, implica una sopravvivenza post mortem delle nostre cellule digitali che rende più critica l’elaborazione del lutto. Ne ho parlato più volte nel blog: i profili social, se da una parte offrono un prezioso scrigno dei ricordi al dolente, dall’altra rendono più difficile l’accettazione del distacco. Ogni singolo giorno, infatti, il dolente ritrova davanti ai suoi occhi immagini, parole, suoni del proprio amato defunto che impediscono, di fatto, l’inizio di un nuovo mondo senza di lui. Quell’insieme di dati online, complice la particolare temporalità che vige in Rete, sembra rendere fisicamente presente colui che non c’è più, intercettando da un punto di vista psicologico ed emotivo il desiderio recondito di aver vissuto solo un brutto sogno. D’altronde, questa carne digitale favorisce tutti quelle dinamiche romantiche di comunicazione tra i vivi e i morti che sono alla base degli stessi Continuing Bonds, rimandando la mente – al tempo stesso – alle teorie spiritiche del XIX secolo.

Prendere coscienza che, oramai, siamo coinvolti emotivamente e fisicamente nella dimensione online è, a mio avviso, un punto di partenza fondamentale per cercare di comprendere i meccanismi della Rete e per affrontare con più raziocinio possibile le conseguenze della frequentazione dei vari luoghi online. Pensare ancora che vi sia una contrapposizione tra reale e virtuale e che la caratteristica propria della dimensione online sia un’asettica immaterialità significa sottovalutare l’impatto emotivo che tale dimensione comporta nella vita di tutti i giorni. E, di conseguenza, significa non comprendere i nuovi codici simbolici che regolano il nostro atavico rapporto con la morte e con la perdita. Non è questo lo spazio per un’approfondita analisi teorica del nostro essere corpo nei vari luoghi online. Mi limito soltanto a proporre qualche suggestione che permetta di mettere meglio a fuoco quella realtà “onlife”, di cui parla Luciano Floridi, che oramai testimonia il carattere obsoleto di una distinzione rigida tra l’online e l’offline.

Lascio, come sempre, a voi lo spazio per esprimere dubbi o considerazioni in merito.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/08/onlife-significato-neologismo-e1628089448968.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-08-05 09:00:002021-08-04 17:10:48Carne digitale. La nostra presenza corporea nel mondo online, di Davide Sisto

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