Le cure palliative in modo giusto, di Marina Sozzi
L’indagine promossa dalla Fondazione Ghirotti sulla conoscenza da parte dei cittadini della legge 38/2010 sulle cure palliative ha dato risultati sconfortanti. A otto anni dall’entrata in vigore della legge, due italiani su tre la ignorano, e non sanno cosa siano le cure palliative. Anche i medici non sono sufficientemente informati, solo un medico di medicina generale su tre conosce bene la legge. In compenso, laddove ci siano sul territorio esperienze di cure palliative in hospice o a domicilio, l’apprezzamento della popolazione è molto alto.
Occorre conoscere per cambiare, dunque. Per contribuire a questa conoscenza ho voluto intervistare gli autori di un bellissimo libro sulle cure palliative appena uscito, In modo giusto, di Marta de Angelis e Paolo Trenta.
Nel vostro libro parlate di cure palliative basate sulle narrazioni. Cosa significa esattamente?
Le cure palliative in Italia esistono da trent’anni; nel tempo si è lavorato per informare la cittadinanza ed educare i professionisti sanitari, anche se molto resta da fare.
Occorre però fare attenzione che le cure palliative non diventino una semplice branca della medicina. Troppo spesso, infatti, si accede a questi percorsi di cura senza un colloquio preliminare e senza che le persone siano correttamente informate delle loro condizioni. La medicina narrativa è un metodo che utilizza le narrazioni nell’intero sistema famigliare/amicale per pianificare e personalizzare le cure secondo un approccio tailored, cioè cucito su misura, come scrive Sandro Spinsanti, permettendo una fine della vita e una morte né troppo larga né troppo stretta, ma in modo giusto.
Si parla molto dell’esigenza di formare i medici affinché abbandonino l’atteggiamento paternalistico e siano messi in grado di accompagnare nelle scelte cruciali i loro pazienti. Se doveste tracciare un identikit del medico con un atteggiamento “adeguato”, come lo disegnereste?
Quello della formazione è un elemento fondamentale della questione; le università non garantiscono gli strumenti educativi idonei per permettere ai futuri professionisti di diventare curanti in grado di rispettare i principi etici che sono alla base della scienza medica.
L’attuale formazione universitaria di tutti i professionisti della salute è ancora lontana da quelle che sono le reali esigenze di cura. Non si affronta il tema della complessità delle cronicità e della gestione globale dei problemi di salute. Le poche ore destinate alle medical humanities sono insufficienti a formare un professionista che sappia relazionarsi, comunicare, ascoltare, rilevare i reali bisogni e co-costruire percorsi di cura personalizzati. Va peggio ancora per l’insegnamento delle cure palliative, di cui la maggior parte dei futuri medici e infermieri ignora il significato e l’esistenza.
Un medico adeguato dovrebbe prima di tutto comprendere il senso della propria professione, che è prendersi cura delle persone, mettendo a disposizione le proprie competenze scientifiche e relazioni, senza il timore di avvicinarsi troppo, accompagnando le persone malate con coraggio, competenza e umanità, dedicando loro tempo di valore e rispettandole per quello che sono.
Un curante adeguato è quello che immerge se stesso in ciò che fa e nelle situazioni, e sa vedere oltre la superficie nelle persone.
Tutte queste sono competenze che si possono costruire attraverso un processo formativo continuo, non estemporaneo e decontestualizzato.
Voi parlate dell’esigenza di una “postura narrativa” dei curanti. Ce la spiegate meglio?
Per fare una vera medicina narrativa è essenziale acquisire un’adeguata postura narrativa, secondo la definizione di Rita Charon, medico della Columbia University, fondatrice della moderna medicina narrativa. La postura è un atteggiamento basato su abilità di attenzione, riflessione, ascolto, empatia, dialogo, necessarie a cogliere l’essenziale delle narrazioni. Questo significa interpretare con il malato e la sua rete familiare/amicale come vive la sua esperienza di malattia, quali sono i suoi valori, le sue ansie, le sue aspettative, il significato e il senso che assegna a questa ultima fase della vita. Questa metodologia clinico-assistenziale è necessaria per co-costruire un percorso di cura che si avvicini al massimo benessere e garantisca la miglior qualità di vita possibili, tarati su standard definiti dal malato e non dai curanti.
Quanto è importante, per buone cure palliative, che il malato conosca la propria situazione? E’ necessaria la sua consapevolezza? Come è possibile ottenere una “giusta verità”?
Se vogliamo costruire un progetto condiviso tra malati e curanti il punto di partenza è quello di una consapevolezza basata su informazione e comunicazioni veritiere. Ciò non significa brutalità, assenza di tatto, setting e tempi inadeguati, ma al contrario un processo di preparazione, conoscenza reciproca, fiducia, rispetto della dignità e attenzione ai singoli desideri e aspettative.
Occorre anche rispettare l’eventuale scelta di non essere informati, anche se questo può rendere il progetto di pianificazione più opaco, confuso e meno efficace.
La comunicazione della diagnosi e della prognosi rappresenta una componente fondamentale di quella che noi chiamiamo postura narrativa.
D’altra parte uno dei punti qualificanti della nuova legge su consenso informato, dichiarazioni anticipate di trattamento e pianificazione delle cure è proprio quello che si basa sul rispetto dell’autonomia attraverso il diritto della persona ad avere una comunicazione veritiera.
Per la narrazione, per l’ascolto e la conversazione, serve tempo. Oggi il tempo è sempre più carente nei contesti di cura. Come si può ovviare a questo problema?
Per fare una medicina narrativa è evidente che occorra un’organizzazione narrativa: i servizi devono essere organizzati sul paradigma narrativo, il quale richiede tempo e non metodi standardizzati e proceduralizzati. Servono tempi flessibili, non rigidamente preordinati, ma tarati sul riconoscimento dei bisogni. Abbiamo peraltro notato che la competenza narrativa permette una diversificazione e un’ottimizzazione dei tempi.
Certo, la medicina narrativa è incompatibile con organizzazioni rigide, separate per discipline, contesti e professioni. Il concetto base è la definizione di priorità. In un contesto narrativo in cui ci si occupa di complessità, il tempo rappresenta elemento di cura al pari del risultato di un’indagine diagnostica o di un valore di laboratorio.
E’ possibile affrontare mediante la narrazione la paura di morire dei pazienti, la loro sofferenza esistenziale?
E’ un aiuto. E non solo per i malati, ma anche per l’equipe nella sua interezza, che vive quotidianamente a contatto con il morire. Narrare significa dare forma e senso all’esperienza, definirla, e questo è di sostegno nell’affrontare le difficoltà legate alla fine di un’esistenza. Ascoltare le storie dei pazienti gravemente malati significa dare loro la possibilità di essere vivi fino alla fine. Siamo consapevoli dei limiti di questo approccio, ma anche delle sue enormi potenzialità.
In che modo l’approccio da voi auspicato favorisce il sentimento di dignità dei pazienti (tema, questo, che sta molto a cuore ai lettori di questo blog)?
La dignità è riconoscere all’altro valore, e il diritto di plasmare la sua storia fino alla fine, di autodeterminarsi, di non essere guidato paternalisticamente o abbandonato a scelte angoscianti. Rispettare la dignità significa riconoscere il diritto dei pazienti di scegliere e di essere aiutati nelle scelte. L’individualità di ogni situazione non può e non deve essere inquadrata in rigide classificazioni.
I curanti, soprattutto i medici, che si occupano di complessità, dovranno imparare a comprendere il valore di questo approccio partendo dal concetto, spesso trascurato, che la medicina è una scienza che esiste per prendersi cura delle persone e che questo rappresenta una responsabilità morale che trova nel rispetto della dignità dei singoli individui la sua massima espressione.
Dopo aver letto l’intervista a Marta De Angelis e Paolo Trenta, cosa potete raccontarci delle vostre esperienze con i medici che avete incontrato? Che cosa manca, secondo voi, nella loro formazione? Vi è parso che conoscessero a sufficienza le cure palliative?