Buona morte e/o eutanasia?
I francesi, dice un recente sondaggio, sono all’80% favorevoli all’eutanasia; non molto diversamente, in Italia una rilevante porzione della popolazione auspica una legge sull’eutanasia. Anche se tale opinione diffusa pare la lucida espressione di una meditata riflessione, c’è qualcosa che non convince pienamente.
Intanto, siamo sicuri che tutti i cittadini intendano la stessa cosa quando dicono “eutanasia”? Vogliamo l’eutanasia o stiamo chiedendo, essendo oggi possibile, di essere aiutati a morire bene? Nel nostro paese il dibattito pubblico mescola tutte le carte: si è parlato di eutanasia a proposito di Piergiorgio Welby, che voleva interrompere le cure che lo tenevano artificialmente in vita. Si è parlato di eutanasia a proposito di Eluana Englaro, la cui condizione vegetativa permamente richiedeva solo di permettere che la natura facesse il suo corso, dopo diciassette anni di alimentazione e idratazione parenterale.
In questa situazione di mancanza di chiarezza, si finisce per catalogare come eutanasia tutte le forme di abbreviazione dell’agonia che impediscono ai cittadini di morire lentamente, incoscienti, intubati, ventilati, con mille fili e tubi che escono dal loro corpo martoriato da inutili e futili tentativi di prolungare una vita che alla vita non somiglia più per nulla.
Se vogliamo invece parlare di eutanasia, occorre distinguere. Non è eutanasia la sospensione delle cure, garantita come diritto dalla Costituzione Italiana. Non è eutanasia l’interruzione delle terapie di sostegno alla vita nel caso di stato vegetativo permanente, che, tanto più in presenza di un testamento biologico, ricadono nel caso precedente. Non è eutanasia la sedazione terminale, che null’altro è che l’abolizione farmacologica della coscienza qualora il dolore sia troppo intenso per essere sopportato, ma che non abbrevia e non prolunga la vita. Non è eutanasia neppure l’aumento delle dosi di oppiacei in fase terminale, per contenere la sofferenza, qualora il paziente lo chieda.
Per poter discutere, dobbiamo chiarire il nostro oggetto: eutanasia si ha quando si interrompe la vita mediante somministrazione attiva di farmaci letali.
Se ipotizziamo, in una società ideale, che tutti i casi citati sopra siano stabiliti in modo trasparente e realizzati nella prassi della cura – ossia che venga meno anche la tentazione di non rispettare la volontà del paziente e di accanirsi sulle terapie – ci si rende conto che il tema dell’eutanasia perde un po’ della sua centralità. Resterebbe un problema, forse, ma certo riguarderebbe un numero molto minore di individui.
In un paese in cui le cure palliative fossero estese a tutti i cittadini e a tutte le patologie nella prossimità della morte (come vuole la legge 38 del marzo 2010, che pone il principio che l’accesso alle cure palliative sia un diritto) si invocherebbe meno di frequente l’eutanasia. Se ci fosse un rigoroso rispetto delle volontà dei pazienti morenti, la consapevolezza che il malato terminale non è un “paziente grave” ma un “uomo che muore”, forse non ci sarebbe bisogno di inettare veleni in nessuna vena.
Potrebbe restare in discussione se sia opportuno legalizzare il “suicidio assistito”, ossia se la nostra società intenda farsi carico, a livello collettivo, del desiderio di persone, sane o malate, di suicidarsi con aiuto medico. Tema molto delicato e complesso, sul quale non ho risposte. Tengo in considerazione, tuttavia, la messa in guardia di un grande bioeticista americano, Daniel Callahan, il quale ci ricorda che il cammino della civiltà ha avuto la direzione di una limitazione dei casi in cui è legittima l’uccisione di un uomo con il benestare sociale o statale. Infatti si combatte sul piano internazionale la pena di morte, ed esiste un reato di eccesso di legittima difesa. L’eutanasia sarebbe, invece, un’estensione della casistica in cui è lecito dare la morte a un individuo, seppure col suo consenso.
Ma prima di riflettere su questo spinoso dilemma (che andrebbe inoltre trattato uscendo dall’asfittico dibattito sulla disponibilità o indisponibilità della vita umana), non sarebbe bene lavorare per rendere prassi comune ciò che è già stato riconosciuto come diritto e che non pone problemi morali così complessi?