Quali foto per le cure palliative. Intervista a Domiziano Lisignoli, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato Domiziano Lisignoli, fotografo e teorico della fotografia, autore del volume Negli occhi di chi guarda. L’equilibrio di senso nella fotografia, tra testo e contesto, del 2023, che si interroga, tra l’altro, sul rapporto tra fotografia e dolore.
Se si cerca su Google immagini di “cure palliative” si trovano prevalentemente fotografie di scarsa qualità, che ritraggono in vari modi mani che si intrecciano, la mano del curante posata sulla mano del curato, mani che tengono un cuore rosso, eccetera. Per quali ragioni secondo te c’è così poca fantasia nel rappresentare l’operato di chi accompagna la malattia inguaribile?
Mi sono cimentato più volte in questa ricerca. Ciò che osservo è una visione statica: ormai da anni le cure palliative sono rappresentate da quell’intreccio di mani cui fai riferimento. Una cosa che mi colpisce è che in molti casi la mano del curante e quella del curato sono riconoscibili solo dalla posizione, talvolta dal gesto, ma sono mani molto simili tra di loro, e nessuna delle due mostra traccia della malattia o della sofferenza.
In alternativa, ci sono le metaforiche foto di tramonti e di “fiori soffioni” che hanno dominato la scena per molti anni: sono foto puramente evocative, che sottendono una certa paura di mostrare la persona e la sofferenza. Questo è un punto nodale: si ha paura.
Dei tre soggetti coinvolti nelle fasi di scatto (fotografo, soggetto, e struttura in cui si fotografa), ho notato che i timori che più facilmente portano ad un blocco si trovano nel personale della struttura, che spesso si erge anche a paladino dei diritti della privacy del morente; il quale invece, altrettanto spesso, è orgoglioso di essere coinvolto in un progetto fotografico.
Altre immagini frequenti sono quelle di agenzia: su questi siti cercando “cure palliative”, si trovano foto costruite, in cui il ruolo del malato è interpretato da un attore, una persona anziana e sorridente, ed il ruolo del curante da una figura rassicurante anche nell’aspetto: sono foto in cui non ci sono malati giovani e non ci sono medici/infermieri grassi, calvi o con le occhiaie. Tutto è perfetto. Esiste una ricerca al riguardo pubblicata sul Journal of Death and Dying, condotta in Svizzera da Gaudenz Metzger, dell’alta scuola d’arte di Zurigo, di cui cito un passaggio:
“È naturalmente problematico se tutto ciò che circonda la morte viene visto come qualcosa di terribile, ma è altrettanto problematico che venga abbellito. Queste immagini distorte suscitano aspettative che non possono essere soddisfatte nel mondo reale.”
Metzger si riferisce ad uno studio in cui sono state analizzate più di 600 foto utilizzate per promuovere le cure palliative, in cui si nota l’assenza del lutto e del dolore.
Quando non troviamo mani, spesso troviamo siringhe, aghi, flebo…. Terapia certo, ma non cura, non nell’accezione di cure palliative. Non c’è la cura intesa come relazione.
Oggi però alcune istituzioni del Terzo settore, che offrono cure palliative specialistiche gratuite, usano la fotografia per documentare il proprio operato e per creare nel pubblico la commozione necessaria per raccogliere fondi. Manca però, nella maggior parte dei casi, una riflessione (che vada oltre la necessità di avere una liberatoria) sull’utilizzo delle immagini. Cosa possiamo dire a questo proposito? C’è un tema etico di cui tenere conto?
Questo è verissimo, ci si ferma alla liberatoria, passaggio obbligato, che ci mette al riparo da eventuali problemi giuridici, ma non sufficiente. Bisogna andare oltre, anzi, è fondamentale lavorare prima con un progetto culturale, che porti a dare una prospettiva al discorso visivo: è necessario avere una strategia comunicativa, porsi delle domande a monte, la prima delle quali, “cosa vogliamo dire e fare con le nostre foto?” Naturalmente, le immagini destinate ad una raccolta fondi saranno diverse da quelle destinate alla sensibilizzazione sull’argomento. Va da sé che non è sufficiente avere foto “belle”, ma devono essere foto adatte al progetto.
Quando parlo di progetti, non penso necessariamente a qualcosa di faraonico, ma a qualcosa di strutturato, pensato e condiviso tra coloro che si occupano di diffondere la cultura del fine vita. Una sorta di equipe culturale sul tema, che stabilisca le linee guida del lavoro da svolgere, che definisca ad esempio se le foto dovranno esprimere il punto di vista del malato, dei suoi affetti, o quello dei sanitari o del fotografo. Senza una riflessione a monte, avremo foto difficili da leggere, ed in ultima analisi avremo foto inutili.
Visitando siti di associazioni che si occupano di cure palliative, se ne trovano ora alcuni che sanno usare la fotografia in modo diretto, senza nascondere la malattia, ma documentando con garbo il lavoro di operatori e volontari, le emozioni e gli stati d’animo dei pazienti. Sono foto che non vengono evidenziate dai motori di ricerca, ma sono il segno di qualcosa che inizia a muoversi. Si tratta delle realtà che sanno progettare e sanno gestire i timori di cui ho parlato sopra.
Ci sono state iniziative di concorsi fotografici sulle cure palliative. Hanno contribuito a rappresentare questo mondo?
Ho visto molte foto di concorsi fotografici proposti da associazioni legate alle cure palliative, e anche qui il grande assente è un progetto: non è sufficiente individuare un tema.
Ci sono foto interessanti, ma sono scatti singoli, e non ci danno una prospettiva, non emerge il punto di vista del fotografo. Mi sembra che si possano dividere in due blocchi le foto che negli anni hanno partecipato a concorsi di questo tipo: da un lato vediamo le foto più varie, spesso le mani, come abbiamo già detto, o scatti che, se non sono accompagnati da un testo, risultano poco comprensibili all’interno di questo contesto, dall’altro lato vediamo le foto che parlano di terapia (che mi sembrano in aumento).
Anche nel caso dei concorsi, bisognerebbe partire da un progetto culturale: in sua assenza emerge una notevole frammentazione, e non si riesce ad avere una visione di insieme. Il concorso poi va organizzato, vanno coinvolti fotografi esterni al mondo delle cure palliative, va curata la comunicazione, e soprattutto è fondamentale che la giuria sia qualificata e non si limiti a stilare una classifica, ma che sia chiara nelle motivazioni delle proprie scelte. Sembrano banalità, ma ho visto molti concorsi perdere efficacia proprio perché gestiti male nonostante mostrassero delle buone potenzialità iniziali. Tra l’altro, aprire a fotografi esterni a questo mondo, significa anche avere un feedback su come le cure palliative siano percepite.
Tu hai fatto foto in hospice. Ci vuoi raccontare come ti sei accostato alla sofferenza delle persone e che senso ha avuto per te scattare in quel contesto?
Il mio primo incontro con l’hospice risale a più di dieci anni fa, quando stavo lavorando a Di mano in mano, un progetto personale da cui sono nati un libro ed una mostra patrocinati dalla Federazione Cure Palliative. L’idea di fondo è che le mani ci accompagnano lungo tutta la vita, perché si nasce nelle mani dell’ostetrica, ed il malato terminale cerca conforto nel contatto con la mano di una persona cara. Quindi ho rappresentato anche io delle mani (era il mio progetto), ma ho cercato una mano consumata dalla malattia, e mi sono affidato anche ad altri piccoli particolari per rendere riconoscibili il ruolo del curante e quello del curato: il polsino di una camicia a quadretti, ed il polsino di un pigiama, vanno a connotare le mani rispettivamente del caregiver e del malato in modo inequivocabile, coerentemente con le due mani raffigurate.
In quel periodo lavoravo già da tempo in ambito sociale e sanitario, in particolare avevo maturato una buona familiarità nel fotografare il lavoro delle ostetriche in sala parto, ma quando iniziai a strutturare il progetto, al pensiero di fotografare un morente reale, mi bloccai: non fotografare gli ultimi attimi di vita sarebbe stato ipocrita, ed il progetto sarebbe stato incompleto; ricorrere alle mani scarne di un anziano, e definirle di un morente, sarebbe stato scorretto nei confronti dei miei lettori, ma chiedere ad un morente di posare, per quanto unica soluzione, mi sembrava di difficile realizzazione.
Il primo passo è stato quindi quello di superare il mio timore, e contattare un hospice per capire se si potesse realizzare l’immagine che avevo in mente, di cui ho parlato in precedenza. Ricordo benissimo tutte le fasi, le paure di essere inopportuno, indiscreto, magari anche egoista nel puntare un obiettivo verso una persona cui chiedevo di partecipare ad un progetto, ma che sapeva benissimo di non avere il tempo per vederlo realizzato.
Tutte le paure si sciolsero quando i miei occhi incontrarono quelli di Franca, la persona che Katri Mingardi, psicologa dell’hospice cui mi ero rivolto, aveva individuato come adatta a questo progetto. Franca mi accolse con un sorriso, lucida, e ci fu un bel dialogo di preparazione senza alcuna maschera. Questa credo sia la chiave, evitare recite, ma essere sé stessi, trasparenti, discreti, in punta di piedi. Franca morì poche ore dopo, chiaramente non ebbe il tempo di vedere il libro pubblicato, ma quando vidi il marito ed i figli per consegnare la stampa della foto utilizzata, e ringraziarli nuovamente, mi sorpresero con le loro parole: “Franca ci ha fatto un bel regalo”.
Da quel momento ho realizzato altri servizi in hospice, ho quasi abbandonato il lavoro con il materno infantile, ed ho iniziato lavorare su progetti volti a sensibilizzare verso le cure palliative ed il fine vita. Il passaggio in hospice è stato quindi un punto di svolta per me, per la mia visione, non solo professionale. Perché fotografare la morte significa viverla, e viverla significa conoscerla un po’ di più.
Cosa ne pensate? Vi siete mai interrogati sulle immagini relative alle cure palliative? ne avete scattate?