Il cancro. Parte seconda
Cari amici, benché sia lungi da me l’idea di intrattenervi e tediarvi sul tema del mio cancro, vorrei darvi ancora un’informazione, fare con voi una riflessione, e rivolgervi una domanda. Poi Si può dire morte parlerà d’altro.
Come prima cosa, però, voglio ringraziarvi tutti infinitamente per la vostra vicinanza, che mi ha fatto molto bene. Avrei voluto farlo individualmente, ma non ne ho l’energia, siete troppi!
Ciò che mi sta ancora a cuore dirvi, è che ho pensato di trasformare il mio cancro in un’avventura, oltre che personale, intellettuale.
L’informazione. Questa malattia è ancora troppo oscura, inquietante e indicibile: non a caso, dopo l’articolo di Vera Schiavazzi dedicato a me su Repubblica, il giornalista Mimmo Càndito ha sentito l’esigenza di parlare del suo tumore al polmone sulla Stampa (e vorrei ringraziarlo). Prima di ammalarmi, mai avrei pensato che ci fosse ancora una così grande difficoltà a dire “ho un cancro”, e solo ora capisco la riuscita pubblicità dell’AIRC: la parola “incurabile” è tramutata nella parola “curabile”, mentre il prefisso “in” si sgretola a colpi di piccone.
Credo quindi possa essere utile analizzare la malattia (che per molti è ancora sinonimo di sentenza di morte) da un punto di vista sociale e culturale: come ci rappresentiamo socialmente il cancro? Cosa accade a noi, ai nostri familiari, ai nostri amici, quando viene formulata la diagnosi? Come affrontiamo le terapie? Abbiamo fiducia nella medicina ufficiale? Rimettiamo in discussione le nostre vite?
Ho così cominciato a leggere e prendere appunti per costruire una nuova ricerca.
La riflessione. Inoltre se il cancro non è un’invasione di alieni, se è qualcosa che il mio corpo ha prodotto, vorrei capire se è vero che la mia mente è stata solidale con le cellule “impazzite” e non col mio sistema immunitario, e perché.
La medicina psicosomatica parla da decenni di un’insorgenza multifattoriale del tumore (che deve dunque anche tener conto delle variabili psicologiche e sociali): e io ho percepito di non essere stata una vittima della malattia, ma un agente. Il mio corpo mi ha probabilmente dato un avvertimento, un segnale d’allarme, con il sintomo cancro. Certo non c’è evidenza scientifica che sia così, ma l’ipotesi non può essere scartata. Potrebbe essere, il cancro, anche (certo non solo) una richiesta d’aiuto del nostro corpo bistrattato? Del nostro corpo che ci richiede di svoltare? Di crescere, di risolvere i conflitti interiori, di smetterla di scappare?
Io sono diventata adulta imparando a dare un peso preponderante alla mia parte razionale. Ma non ho tralasciato qualcosa? E le emozioni che ho trascurato, negato, occultato, potrebbero aver preso una via di sfogo somatica (per dirla in soldoni)?
In una cultura del “dover essere”, del dover stare sempre bene, sempre in forma, sempre positivi, sempre sorridenti, sempre dinamici, sempre “in carriera”, l’oblio delle emozioni potrebbe non riguardare solo me. Anzi, la presbiopia emozionale sembra essere un problema diffuso. Volgiamo sdegnosamente lo sguardo dall’altra parte quando qualcosa può farci male o metterci in crisi. Ma che effetto ci fanno queste molteplici negazioni?
La domanda che vorrei farvi è: siete d’accordo con la visione psicosomatica del tumore, per cui quest’ultimo ha una pluralità di cause, tra cui un’importante dimensione psicologica? O pensate piuttosto che il cancro sia una malattia “biologica”, che arriva casualmente all’uno o all’altro? O altro ancora? Mi aiutate? Tutto quello che vorrete dirmi sarà un importante materiale per la mia ricerca sul cancro. Grazie!