Il ritorno della morte nello spazio pubblico? di Cristina Vargas
Nell’ultimo fine settimana di settembre si è svolta la rassegna annuale Torino Spiritualità, che quest’anno era intitolata Agli assenti. Della morte ovvero della vita. Oltre a questa, diverse altre manifestazioni culturali importanti in tutta Italia hanno scelto di soffermarsi su questo tema ed è crescente l’importanza dei festival specificamente incentrati sul fine vita (ad esempio in questo momento si sta svolgendo Il rumore del lutto a Parma, che esiste da 17 anni e che ha fatto scuola, ma ricordiamo anche nuove iniziative: Mortali. Vivere nonostante a Trento, o il festival culturale di Vidas, a Milano, appena concluso, o ancora Da Vivi, Il miracolo della finitezza, del Teatro Metastasio a Prato, e altri ancora): dopo decadi di impronunciabilità, sembra che nel periodo post pandemico il tema del fine vita stia riguadagnando terreno.
Quali riflessioni possiamo trarre dal successo di queste e altre iniziative? Siamo forse di fronte a un ritorno della morte nello spazio pubblico? È presto per dirlo. Tuttavia, rispetto a vent’anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi questo ambito, le differenze sono molto significative. Allora gli eventi richiamavano con fatica poche persone e, se si avanzava la proposta di organizzare qualcosa di un po’ più ampio, da tutte le parti arrivavano richiami alla cautela. Sono innumerevoli le occasioni in cui ci siamo sentiti rispondere: “C’è la parola morte nel titolo? Meglio di no! Potrebbe spaventare il pubblico”. Oggi, al contrario, sembra che il clima sociale stia lentamente mutando e che, più che in passato, si percepisca un bisogno sociale di confronto, condivisione e dialogo. Questo stesso blog, Si può dire morte, sembra cominci a vincere la sua scommessa.
Il Death café organizzato in occasione dell’inaugurazione di Torino Spiritualità e il laboratorio “Le assenze, gli assenti”, che ho avuto la possibilità di co-condurre insieme alla psicoterapeuta e psicodrammatista Caterina di Chio, rappresentano per me due punti di osservazione privilegiata per cominciare ad abbozzare qualche ipotesi sul perché le persone, oggi, scelgono di prendere parte attiva ai momenti pubblici di riflessione sui grandi quesiti esistenziali sollevati dalla morte.
Al Death café inaugurale hanno partecipato circa seicento persone che, in gruppi da dieci e guidati da conduttori esperti, hanno riflettuto sulla domanda «In che senso la morte può far parte della vita?». Fra i presenti c’erano medici, infermieri, psicologi, operatori funebri e altri professionisti che a vario titolo si confrontano con il fine vita, ma soprattutto c’erano i cittadini, che si sono messi in gioco a partire dalle proprie riflessioni e vissuti personali (cfr. il report dell’evento a cura di Marina Sozzi). Il laboratorio, invece, era rivolto a un piccolo gruppo e utilizzava metodologie attive, con lo scopo di esplorare i molti modi in cui chi ci ha lasciato continua ad abitare dentro di noi. In entrambe le occasioni i contenuti sono stati ricchi e profondamente umani, ma in questa sede mi interessa evidenziare che, al termine, molti dei partecipanti hanno sottolineato – in alcuni casi con un pizzico di sorpresa – quanto fosse stato importante e significativo vivere un momento in cui era stato possibile parlare della morte in modo aperto, in un clima di condivisione e reciprocità.
L’incontro autentico e paritario fra persone ha offerto un momento comunicativo e relazionale diverso rispetto a quelli che normalmente sperimentiamo nei nostri contesti di vita.
Il rinnovato interesse a parlare della morte, cui stiamo assistendo, infatti, non vuol dire che questo tema sia ormai familiare a tutti, o che il “tabù”, di cui abbiamo più volte parlato, sia tramontato. Parlare della morte, del morire e del lutto rimane molto difficile, in particolare nelle situazioni che ci coinvolgono in modo diretto e personale.
Un recente progetto di ricerca di interesse nazionale, i cui risultati sono stati presentati nel volume Morire all’italiana (2022, a cura di Asher Colombo), ci restituisce l’immagine di una società eterogenea, con modalità di rapportarsi con la fine della vita non facilmente schematizzabili. Tuttavia, in molti ambiti gli autori hanno notato che persiste una diffusa difficoltà nell’accettare la morte e nell’accompagnare i morenti. Emerge inoltre la tendenza a relegare l’esperienza del lutto in una dimensione privata e intima, che lascia poco spazio alla sfera collettiva. Ciò conferma un più generale processo di mutamento storico: da una gestione prevalentemente familiare e comunitaria della morte, siamo passati nel secondo Novecento a una modalità fortemente individualizzata (e per molti versi individualistica) di approcciare le ultime fasi.
Questa progressiva individualizzazione si esprime in diversi modi, con risvolti positivi e negativi. Si pensi, per esempio, all’importanza che ha assunto il concetto di autodeterminazione per quanto riguarda le scelte di fine vita. L’individualizzazione, inoltre, si manifesta anche sul piano delle credenze e dei riti: la secolarizzazione, più che eliminare il bisogno di spiritualità, ha favorito l’affermarsi di forme nuove e personalizzate di vivere il rapporto con l’aldilà, con il sacro e con i defunti. A questo proposito, l’indebolirsi delle forme tradizionali di gestione della morte e del lutto da un lato solleva dal peso (a volte gravoso) dei “doveri sociali”; ma dall’altro può generare un senso di incomunicabilità e di solitudine.
Il nostro rapporto con la morte oggi, in sintesi, si sviluppa in uno scenario caratterizzato dalla frammentazione e dalla complessità.
In quest’ottica, il rinnovato interesse per il fine vita fa tornare alla mente le riflessioni proposte più di vent’anni fa dal sociologo britannico Tony Walter nel suo noto volume The Revival of Death. Secondo Walter il bisogno di parlare della morte, del morire e del lutto, che egli riscontrava già allora (forse perché il suo sguardo partiva dalla realtà anglosassone), deriva non tanto dal desiderio di rompere il tabù della morte (un concetto su cui questo autore è critico), ma dalla necessità di trovare risposte di fronte alle nuove sfide e incertezze generate dal mondo contemporaneo e dal rapido mutamento delle pratiche sociali.
A queste considerazioni, a mio avviso, si aggiungono le ricadute del periodo pandemico, durante il quale la possibilità di accompagnare i malati e i morenti, di essere presenti fisicamente nelle ultime fasi, di dire addio e di ritualizzare la morte è stata fortemente limitata. Ciò, da un lato, ha acuito il senso di isolamento di chi ha subito delle perdite; dall’altro, per contrasto, ha aumentato la consapevolezza dell’importanza, e del valore, dei momenti collettivi di condivisione, rito e memoria.
Il dialogo e il confronto sono risorse che non solo aiutano a lenire la solitudine connessa alla sofferenza, ma consentono anche di ripensare e di rielaborare i quesiti esistenziali con cui tutti ci confrontiamo di fronte alla fine, tanto sul piano professionale, quanto sul piano personale. Essi, inoltre, sono potenti strumenti per riflettere sui dubbi e le incertezze della contemporaneità. Se non c’è una narrazione univoca a cui possiamo aggrapparci, o convenzioni sociali che – per quanto limitanti – ci dicano cosa è giusto dire o fare, come facciamo a sapere se siamo sulla buona strada nel percorso di lutto? Chi ci assicura (e rassicura) sul fatto che le emozioni difficili che intimamente proviamo siano normali e non il segnale di qualche anomalia? In mancanza di linguaggi sociali consolidati per gestire la morte, la condivisione a livello comunitario o di gruppo ha una funzione non solo espressiva (di per sé importantissima), ma anche rielaborativa, nella misura in cui permette di chiarire, di riorganizzare e conferire significato a pensieri, esperienze ed emozioni di cui non è semplice parlare in altri contesti.
E voi cosa ne pensate? Quali sono le vostre sensazioni in merito? Avete seguito uno di questi festival?