La memoria delle vittime di femminicidio, di Cristina Vargas
In questo articolo vorrei esplorare il ruolo della scultura, la performance e altre manifestazioni artistiche dedicate alla memoria delle donne vittime di femminicidio, nella costruzione di una rappresentazione sociale della violenza di genere, un fenomeno che fino a pochi decenni fa non aveva nemmeno un nome proprio.
La storia della parola femminicidio è strettamente legata a quella di Ciudad Juarez, in Messico, ed è proprio lì che si sviluppano le prime espressioni artistiche legate a questo fenomeno.
Fin dai primi anni Novanta Ciudad Juarez divenne tristemente famosa per le centinaia, forse migliaia, di sparizioni di giovani donne, che talvolta ricomparivano morte, scaricate senza cerimonie dopo essere state brutalmente uccise. Si trattava di ragazze giovanissime, molte di loro minorenni, quasi tutte di classi sociali svantaggiate e spesso operaie presso le maquiladoras, grandi fabbriche in cui le multinazionali ancora oggi sfruttano a proprio vantaggio il basso costo della mano d’opera messicana. I loro corpi dilaniati raccontavano senza ombra di dubbio l’orrore dello stupro e della tortura, ma tutto avveniva, e in parte avviene tuttora, in un clima di completa impunità: nonostante le denunce delle famiglie – e delle madri in particolare – la verità non veniva cercata.
Di fronte a questi fatti, l’antropologa messicana Marcela Lagarde cominciò a usare il termine “femminicidio”, una parola che aveva lo scopo di evidenziare come questi crimini non fossero atti isolati di violenza, ma fossero la conseguenza estrema di una cultura patriarcale pervasiva, strutturalmente radicata in una società che, per secoli, aveva negato i diritti delle donne e ne aveva costruito una rappresentazione subordinata e subalterna: proprietà dei maschi; oggetti, non soggetti, da dominare, controllare, sfruttare e “usare” a piacimento. A Lagarde va anche il merito di aver contribuito al riconoscimento del reato di femminicidio in Messico e nel Diritto Internazionale.
Nei primi anni duemila, grazie al lavoro tenace delle madri delle ragazze scomparse o uccise (raccolte nell’associazione Nuestras Hijas de Regreso a Casa), nacque un movimento volto a ottenere giustizia e a generare una presa di coscienza pubblica sulla questione. Per segnalare visivamente i luoghi di ritrovamento delle donne uccise, le attiviste, insieme alle famiglie delle vittime, cominciarono a posare delle grandi croci rosa, una per ogni donna ritrovata: questa pratica venne vietata nel 2007, ma ha continuato ad essere portata avanti fino ad oggi.
Nel 2009 debuttò l’istallazione Zapatos Rojos (Scarpe rosse), diventata una vera e propria icona del movimento internazionale contro la violenza di genere. L’autrice, Elina Chauvet, racconta che, mentre conduceva dei workshop a Ciudad Juarez, era stata profondamente colpita dell’imponente numero di annunci di ragazze scomparse appesi nelle strade: giovani donne di cui non si parlava affatto nei media ufficiali. Sensibile al tema anche per ragioni personali (sua sorella era stata vittima di violenza domestica ed era stata uccisa dal marito), Chauvet decise che era necessario fare un lavoro artistico che non stesse nei musei, ma che fosse presente nelle strade, sotto l’occhio di tutti. Scelse dunque delle scarpe femminili che le erano state donate, ognuna in rappresentazione di una donna scomparsa; le tinse di rosso e le dispose lungo una delle strade principali, spostandole ogni giorno un po’ in avanti fino ad arrivare a El Paso. Le scarpe rosse avevano la potenza visiva di una marcia silenziose di donne assenti. L’istallazione, che avrebbe dovuto concludersi nel 2011, ma è cresciuta ed è stata replicata in molti paesi, compresa l’Italia.
Sebbene non ci sia ancora una tradizione consolidata di memorializzazione del femminicidio, negli ultimi anni sono sorti i primi monumenti commemorativi istituzionali per ricordare le vittime della violenza di genere. Si tratta certamente di un passo avanti nel riconoscimento pubblico di un tragedia finora scarsamente rappresentata, tuttavia, non sono mancate le polemiche: ci sono diversi monumenti che non hanno mai veramente raggiunto il loro scopo e che, al contrario, sono stati sentiti come tentativi di estetizzare la violenza o di mascherare l’assenza di risposte concrete a tutela delle donne da parte delle autorità. Uno di questi è il Memorial Campo Algodonero (Messico), inaugurato nel 2011 come parte di una serie di misure riparative richieste dalla Corte Interamericana dei Diritti Umani, in seguito ad una storica sentenza contro lo Stato Messicano, ritenuto colpevole di non aver garantito il diritto alla vita e alla dignità delle vittime, né preso misure volte a prevenire le loro uccisioni. Per il monumento venne scelta una scultura di Verónica Leiton, che raffigura una donna che emerge da un fiore: questa immagine, in sé bella, è stata però sentita come incongrua e lontana dall’esperienza dei familiari delle donne uccise, che non erano stati coinvolti in nessuna delle decisioni relative al monumento, né in alcuna fase del processo creativo e hanno quindi scelto di non partecipare all’inaugurazione.
La tensione fra la memoria ufficiale e quella dei familiari coinvolti e degli attivisti ha portato allo sviluppo di veri e propri “antimonumenti”, che hanno la funzione non tanto di commemorare un fatto storico riconosciuto (come farebbe un monumento), ma di denunciare quelle situazioni in cui manca una risposta statale, decostruendo il diffuso clima di negazione che circonda la violenza sulle donne. Il movimento degli anti-monumenti è iniziato in America Latina e si è rapidamente diffuso a livello internazionale: i lucchetti e i fazzoletti fucsia con il nome delle donne uccise appesi dall’associazione Non una di meno in Piazza Santissima Annunziata (Firenze), recentemente oggetto di atti vandalici, sono uno degli esempi italiani di questa forma di espressione artistico-politica.
Le scarpe rosse, le croci rosa, gli antimonumenti, i Simboli di venere con il pugno alzato sono alcuni dei modi che, dal basso, sono stati scelti per restituire valore e dignità alle storie inascoltate delle vittime e per esigere dei cambiamenti strutturali. Essi non hanno forse la durata o la solennità dei tradizionali monumenti funebri, ma hanno la capacità di elicitare emozioni e di irrompere a sorpresa negli spazi della vita quotidiana per ricordarci quanto terreno ci sia da percorrere nella prevenzione di crimini che dovrebbero, e potrebbero, essere evitati.
E voi, che opinione avete su questi nuovi linguaggi di commemorazione?