Paura della morte e felicità, di Marina Sozzi
Perché abbiamo paura della morte? E soprattutto, è possibile addomesticare tale inquietudine, che per alcuni è un vero e proprio disagio con cui convivere?
Non parlo tanto, qui, della paura della morte che si manifesta nella prossimità della nostra fine biologica, ma di quell’inesausto sgomento che ci prende al pensiero della nostra finitezza, che può condizionarci a ogni età e in ogni situazione di vita. Quella paura che rende vano, e forse anche futile, il detto del filosofo greco Epicuro, secondo cui “se ci siamo noi, non c’è la morte, se c’è la morte non ci siamo più noi”. Infatti, nonostante questa sia un’indubbia verità, passiamo buona parte della nostra vita ad avere paura, perché vita e morte non sono realtà chiaramente distinte, ma aspetti fittamente intrecciati del destino umano.
La paura della morte è legata, nell’uomo, proprio all’acuta coscienza che egli ha del proprio limite. La morte rappresenta l’ignoto oltre la fine, il mistero per antonomasia, e gli esseri umani hanno sempre cercato soluzioni per attutire l’angoscia che ne deriva loro: risposte religiose, come quella del cristianesimo o dell’islam, che prefigurano altri mondi cui la morte apre il passaggio. O consolazioni laiche, come il pensiero dell’“eredità d’affetti” che ciascuno può lasciare all’umanità, sulla falsariga di Foscolo.
Il quesito è se sia possibile addomesticare, anche se non proprio superare, la paura della fine nel corso della nostra vita. Il filosofo Jankélévitch sosteneva che da un lato c’è la morte come legge naturale, necessità impersonale, perfettamente comprensibile e razionalizzabile. Dall’altro lato c’è la morte come minaccia concreta, inaccettabile, tragica e scandalosa, che incombe sul singolo individuo. In questo secondo significato la morte è inconoscibile e indicibile. Il pensiero si annienta se prende come oggetto la morte, e l’angoscia che essa suscita è legata al nostro tempo umano, all’impossibilità di rappresentazione, al crollo, all’annullamento, all’inabissarsi del pensiero stesso. Sembra dunque, come peraltro pensava anche Sartre, che sia impossibile prepararsi alla morte, e quindi anche affrontare la paura della morte.
A mio modo di vedere, però, occorre capirsi sul significato che diamo al temine “morte”. Se per morte intendiamo l’istante del trapasso, si può dare ragione a Jankélévitch.
Tuttavia, proprio per via della stretta implicazione che c’è tra vita e morte nella quotidianità umana, è possibile accostarsi al pensiero della finitezza in molti modi. Uno di questi è cominciare a guardare alla nostra cultura dal punto di vista della consapevolezza della mortalità. C’è infatti una difficoltà antropologica nell’affrontare la paura di morire, ma ce n’è una molto più grande che è di carattere culturale.
La nostra società ci impone infatti di non condividere socialmente l’ansia per la morte: parlare di morte è considerato segno di indelicatezza o di cattiva educazione, in particolare in presenza di persone anziane, bambini o malati. Il diktat del silenzio induce nella maggior parte dei nostri contemporanei la mancanza di elaborazione, perché l’uomo, animale sociale, non riesce ad accogliere e sistematizzare le proprie ansie e paure se non nella dimensione della condivisione. In questo clima, all’individuo non resta che cercare di sfuggire alle proprie ansie non pensandoci, distraendosi, mettendole da parte ogni volta che si presentano. Invece di cercare di fare i conti con la finitezza, scappiamo a gambe levate, buttandoci nel lavoro o in troppe relazioni superficiali, talvolta facciamo uso di sostanze psicotrope più o meno legali, acquistiamo oggetti inutili. Forse così facendo siamo funzionali alle logiche della civiltà nella quale viviamo, ma certo non contribuiamo alla nostra felicità.
Abbiamo citato la felicità. C’è forse un legame tra elaborazione della paura della morte e felicità? Penso di sì, a patto di non intendere per felicità l’insulsa spensieratezza che aleggia negli spot pubblicitari, a patto di comprenderla come quello stato di appagamento in cui coincidiamo con quel che siamo, perché abbiamo accettato i nostri limiti. E a patto, inoltre, di non illudersi di poter trovare, una volta per tutte, un’incrollabile serenità di fronte alla nostra morte. Ho sperimentato in prima persona, durante la mia malattia oncologica, la difficoltà della mente ad accogliere la propria possibile morte, il rifiuto di toccare la concretezza della fine. Attraverso quell’esperienza mi sono fatta l’idea che solo in una reale prossimità della morte biologica sarà forse possibile lambirla – se non coglierla – col pensiero.
Tuttavia, se si accetta che il dialogo con la morte ci accompagni negli anni, ritengo che il percorso di avvicinamento al pensiero della fine serva, e sia in grado, oltre che di addomesticare la paura, anche di arricchire all’inverosimile la vita: di emozioni, sensibilità, intelligenza. E di riempire di significato le relazioni più autentiche. Ce la dice lunga, a tal proposito, la lettera di Holly Butcher postata su Facebook il 3 gennaio e rapidamente diventata virale: “Voglio solo che la gente smetta di preoccuparsi così tanto dei piccoli stress insignificanti della vita e cerchi di ricordare che tutti abbiamo lo stesso destino, dopo tutto. Quindi: fai quello che puoi per far sì che il tuo tempo sia degno e grande.”
Ma come fare a venire a patti con la paura della morte? Pensiamo innanzitutto che essa non è un monolite, ma è composta da un insieme inestricabile di tante paure più o meno grandi.
Ottenere una migliore convivenza con questa paura, allora, comporta un processo elaborativo, che non può essere fatto in solitudine. Occorre rigirarsela in mente insieme a persone che ci comprendano, scomponendola, e guardando dentro a quel contenitore della Grande Paura, che sembra impossibile da aprire. Cosa troviamo là dentro? Timore della sofferenza? Della perdita della propria individualità? Del dolore di chi resta? Dell’annientamento del nostro mondo? Come bamboline russe, una dentro l’altra, possiamo imparare a estrarre queste paure più piccole una alla volta, esaminarle e cercare di comprendere la loro funzione nella nostra vita. Vedremo allora scendere il tasso di inquietudine, e cominceremo a capire cosa davvero è importante per noi.
Avere paura, sentirsi fragili, non è disdicevole, è umano. Non ce lo ripeteremo mai abbastanza. E Holly scrive: “E’ questa la cosa della vita: è fragile, preziosa e imprevedibile, e ogni giorno è un dono, non un diritto dato.”
Cosa ne pensate? E’ possibile ammansire la nostra paura della morte? Voi ci avete provato? Ci siete riusciti?