Le bambole rotte, intervista a Enrica Bertolino, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato Enrica Bertolino, medico palliativista che opera presso l’Hospice di Chieri, per indagare come si approda alle cure palliative.
Qual è stata la sua formazione e il suo lavoro prima delle cure palliative?
Se mi fossi iscritta all’Università appena finita la maturità avrei scelto la Facoltà di Veterinaria. Quell’estate, però, il mio papà venne punto da un tafano ed ebbe una brutta reazione anafilattoide. Il medico che lo soccorse e che lo curò (un anestesista) non mi sembrò un uomo ma un essere con poteri straordinari. In quel momento decisi che mi sarei iscritta a Medicina e che sarei diventata Anestesista. Per 25 anni ho lavorato all’Ospedale S. Anna ed è stata un’esperienza meravigliosa, condividere con le pazienti la loro esperienza di diventare mamme, aiutarle a non soffrire durante il parto, curarle nelle tante complicanze che la gravidanza molto spesso comporta, mi ha fatto sentire un medico appagato sia dal punto di vista professionale sia da quello umano. In quegli anni, oltre a fare l’anestesista, mi sono anche occupata nella gestione del dolore oncologico nelle pazienti con patologie ginecologiche.
Perché a un certo punto ha deciso di frequentare un master in cure palliative?
Nel 2005, più che una scelta, il Master fu un’occasione alla quale fu impossibile dire di no. All’inizio del corso ero assolutamente ignara di cosa fossero e di cosa si occupassero le cure palliative.
Frequentare il Master mi piacque tantissimo, soprattutto perché vennero insegnate materie non sempre strettamente connesse all’ambito medico come per esempio l’antropologia, ricordo ancora perfettamente il significato del cannibalismo. Durante quei due anni alcuni miei compagni di corso, uno in particolare (oncologo palliativista pediatrico) continuava a ripetermi: “sei troppo anestesista dentro, tu palliativista non lo diventerai mai.”
Cos’è cambiato nel suo lavoro di anestesista dopo aver assunto lo sguardo e l’approccio del palliativista?
Insieme ad una collega-amica che fece il Master dopo di me, iniziammo a seguire le pazienti oncologiche non solo per il controllo del dolore (sintomo per il quale veniva richiesta la nostra consulenza) ma iniziammo ad osservare le malate nella loro globalità di donne (spesso mutilate da interventi demolitori), mogli, mamme e/o figlie. Scoprimmo che il dolore morale era spesso molto più difficile da controllare rispetto a quello fisico.
Entrambe ci rendemmo conto che seppur molto formativo, il Master da solo non era sufficiente per aiutare le nostre pazienti, e così continuammo la nostra formazione palliativistica partecipando a corsi e congressi.
Cos’è accaduto perché lei abbia poi deciso di smettere di fare l’anestesista e iniziare il suo lavoro di palliativista? Ci sono stati incontri fondamentali?
E’ stato un percorso, non un accadimento singolo. Più diventavo palliativista più curavo e conoscevo quelle che a un certo punto definii “le bambole rotte” e più mi rendevo conto di quanto si sentissero sole e abbandonate nel momento in cui la medicina attiva non poteva più aiutarle.
Così come i giocattoli rotti vengono allontanati dalla cesta dei giochi, queste donne si sentivano allontanate dai curanti, da quei medici nei quali avevano riposto tutta la loro fiducia e la loro speranza di guarigione. Non trovavano nessuno capace di far capire loro che la cura della persona continua anche quando la cura della malattia non è più possibile.
Via via che i curanti si rendevano irreperibili, irraggiungibili, irrintracciabili, a quelle donne restavo io.
Conoscere il dottor Garetto è stata un’illuminazione. Sentirlo parlare è stato vedere i miei pensieri e i miei ideali trasformarsi da un groviglio confuso di energia, rabbia, frustrazione, entusiasmo e senso del buono e giusto in una linea dritta e ben delineata.
Cosa le piace di questo lavoro e perché è importante?
Mi piace essermi resa conto che c’è più vita in un Hospice che in una corsia di Ospedale. Perché in Hospice ci si occupa della vita, delle persone malate e non della malattia.
Come già detto prima, purtroppo la cura della malattia tiene troppo poco conto della persona che “la porta”. Poco conto della persona nella sua totalità: nei suoi affetti, nella sua emotività.
In Hospice il termine difficile non esiste. Esiste il termine complesso.
Difficile implicitamente è un termine che accetta la sconfitta, la mancanza di risultato. Complesso indica invece il bisogno di una grande richiesta di energia anzi di sinergia per raggiungere il risultato.
Lavorare in Cure Palliative mi fa sentire di essere sempre dalla parte del giusto, ha modificato il mio carattere, ho smesso di dovermi difendere e di dover difendere.
Poter ridare dignità agli esseri umani, guardare i loro occhi ritrovare la forza di alzarsi, fissare i miei e aprirsi in un sorriso pieno di parole e emozioni è importante.
Così come è importante sapere che in Hospice si entra per vivere pienamente l’ultima parte della vita, non per aspettare di morire. Ogni nuovo paziente è un dono, il dono di chi impara a fidarsi e ad affidarsi, il dono di chi si sente accolto e protetto. Dal mantello, dal pallium.
Ogni vita è come un libro, ogni paziente ci fa il dono di poterne leggere le pagine.
E voi come siete approdati alle cure palliative? attendiamo, come sempre, esperienze, considerazioni e riflessioni.