La memoria digitale: i ricordi nell’epoca del web, di Davide Sisto
Secondo diversi quotidiani internazionali una delle principali attività lavorative del futuro prossimo sarà quella del “Digital Death Manager”, una specie di consulente in ambito tanatologico che aiuta le persone a organizzare le proprie memorie ed eredità digitali.
Negli ultimi decenni il web ha, infatti, letteralmente rivoluzionato la nostra vita quotidiana, dandoci la possibilità di abitare in una seconda casa, “virtuale”, all’interno di cui custodiamo una quantità incalcolabile di “oggetti digitali” personali. Centinaia di fotografie, riflessioni scritte, lettere, immagini audiovisive, che condividiamo – spesso in maniera confusa e sommaria – all’interno dei social network, ma non solo. A differenza degli oggetti fisici, ciascuno un esemplare unico e quindi dotato della preziosa qualità della rarità, quelli digitali possono esistere invece in un numero infinito di copie, posseduti contemporaneamente da più persone, senza sosta duplicati e privi del rischio di essere usurati. Al tempo stesso, se protetti da password, tali oggetti rischiano di essere perduti per sempre, a partire dall’istante in cui moriamo. In nessun caso, infatti, familiari e amici possono accedere – qualora privi della password necessaria, dunque del permesso concesso dal proprietario – ai contenuti digitali prodotti in vita, in quanto protetti dalla privacy.
L’art. 9, comma 3 del Codice in materia di protezione dei dati personali, prevede che l’accesso ai dati personali concernenti persone decedute può essere garantito solo «da chi ha un interesse proprio, o agisce a tutela dell’interessato o per ragioni familiari meritevoli di protezione». Ma la giurisprudenza è ancora molto incerta nell’applicazione di questo articolo e preferisce tutelare la privacy rispetto ai bisogni emotivi di chi ha patito un lutto. Circa un anno fa la cronaca nazionale è stata segnata dalla storia di un padre che, morto il figlio tredicenne a causa di una malattia alle ossa, ha cercato invano di ottenere il permesso di accedere ai contenuti del suo smartphone, per poter conservare le sue ultime fotografie e i suoi ultimi messaggi. La negazione di quello che – ai suoi occhi – appariva un diritto sacrosanto lo ha spinto ad affermare, nelle interviste, che gli è stata negata l’opportunità di conservare i ricordi del figlio (qui un articolo sulla vicenda). Un altro caso, avvenuto in Germania, ha fatto molto scalpore a livello mediatico. Nel 2012, una ragazza di 15 anni muore travolta sui binari della metropolitana a Berlino. I genitori chiedono a Facebook di poter accedere alle conversazioni private della figlia per capire se è morta suicida e, in tal caso, se il suicidio è legato al bullismo. Nonostante battaglie legali durate cinque anni, non è stata soddisfatta la richiesta, nonostante la plausibilità delle loro ragioni (per chi vuole approfondire, qui trova un articolo esaustivo).
Questo problema di non poco conto sarà sempre più sentito, man mano che le generazioni dei nativi digitali diverranno numericamente predominanti. “La morte è una parte della vita e la vita è divenuta digitale”: così scrive Stacey Pitsillides, designer e ricercatrice universitaria inglese, per introdurre il suo sito internet dedicato al tema. Continuare a vivere come se non dovessimo morire mai, non organizzando in modo ragionato le nostre memorie, può generare una situazione caotica in cui tanto più produciamo documenti della nostra quotidianità (selfie di coppia, foto dei nostri figli, lettere via mail, ecc.) quanto più perdiamo gli oggetti della nostra memoria, non lasciando in eredità i ricordi.
Per tale ragione sono sempre più numerose le attività commerciali che cercano di sensibilizzare le persone a gestire con raziocinio i propri oggetti digitali, in vista del tempo in cui saremo morti: dall’americana SafeBeyond, che dà la possibilità di creare videoclip da lasciare in eredità ai propri cari (il video di presentazione del progetto rappresenta la situazione di un padre di una bambina di otto/nove anni che, malato, prepara un discorso audiovisivo che le sarà fatto recapitare il giorno del matrimonio), all’italiana eMemory, che offre spazi virtuali a utenti che vogliono conservare foto e video specifici per quando non ci saranno più.
Le stesse agenzie di onoranze funebri offrono, soprattutto negli Stati Uniti, pacchetti che comprendono tanto i funerali in streaming, per coloro che sono impossibilitati per ragioni economiche a recarsi fisicamente a celebrare il rito funebre del caro estinto, quanto un sostegno per gestire e preparare il proprio patrimonio digitale accumulato nel corso della vita.
Le opportunità principali offerti dalla cosiddetta “memoria digitale”, a mio modo di vedere, sono le seguenti: sensibilizzare le persone in relazione al fine vita partendo dal quesito “che cosa desideri venga ricordato di te?”, il quale scaturisce dai rischi che si corrono per la questione della privacy online di cui sopra, ridefinire i riti di passaggio, non procrastinandoli fino a quando non potremo più gestirli autonomamente, avviare un discorso di educazione responsabile al web e a tutti gli strumenti tecnologici che utilizziamo ogni giorno.
E voi, invece? Avete mai riflettuto sul futuro degli oggetti digitali che producete? Vi è mai capitato di pensare a organizzarli quali lasciti da lasciare alle persone che amate? Diteci cosa ne pensate.