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Tag Archivio per: corpo

Carne digitale. La nostra presenza corporea nel mondo online, di Davide Sisto

5 Agosto 2021/0 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

La pandemia da Covid-19 ha accelerato una serie di processi sociali, culturali e antropologici già ampiamente in corso nello spazio pubblico. Durante il lockdown, per esempio, ci siamo resi conto in maniera definitiva del modo in cui le tecnologie digitali disgiungono concretamente la presenza dalla localizzazione: mentre eravamo fisicamente reclusi all’interno delle nostre abitazioni, consapevoli che il nostro corpo non può occupare più di un posto alla volta, abbiamo infatti continuato ad agire nel mondo attraverso il prolungamento digitale delle nostre identità personali, libere di muoversi nei vari spazi online. Pur con tutti i limiti del caso, non abbiamo smesso di andare a scuola, di vedere concerti dal vivo, di interagire in tempo reale con le altre persone, di celebrare alcuni riti funebri, ecc. Un piccolo ma significativo spunto, a riguardo, è dato dal documentario The Social Distance, prodotto da Netflix, il quale racconta alcune storie personali il cui filo conduttore è l’uso delle piattaforme digitali per mantenere quelle relazioni intersoggettive interrotte di colpo dal lockdown.

La consapevolezza che la distinzione tra presenza e localizzazione problematizza il nostro modo di definire l’identità psicofisica ha determinato, tra gli studiosi dell’attuale impatto sociale e culturale delle tecnologie digitali, l’idea che siamo immersi con il corpo nella dimensione online. Non che sia un’idea nuova, se teniamo conto dei numerosi studi di fine XX secolo (Pierre Lévy, un nome su tutti) i quali evidenziavano la superficialità interpretativa di chi parlava di mera smaterializzazione o virtualizzazione dei corpi in relazione all’immersione online. In termini letterari, Italo Calvino sottolineava il coinvolgimento corporeo delle persone addirittura attraverso la linea telefonica, come si evince dall’affascinante racconto Prima che tu dica “Pronto”. Ora, nel libro The Global Smartphone. Beyond a Youth Technology (2021), un gruppo di antropologi si è soffermato sugli attuali comportamenti tecnologici delle persone anziane, provenienti da diversi paesi del mondo. Il libro evidenzia come lo smartphone sia oramai percepito – in linea generale – nei termini di “una casa trasportabile”: non è, cioè, più inteso come un semplice device che ci permette di comunicare a distanza, ma come il luogo in cui viviamo, il luogo in cui possiamo “fisicamente” incontrare i nostri cari in mancanza della vicinanza fisica. Margaret Gibson e Clarissa Carden, nel libro Living and Dying in a Virtual World (2018), e Patrick Stokes, nel recente Digital Souls (2021), utilizzano invece uno specifico concetto, piuttosto eloquente, per indicare la nostra presenza corporea in Rete: vale a dire, “carne digitale” (Digital Flesh). Il termine inglese Flesh, parente stretto del tedesco Fleish, indica infatti una vera e propria presenza carnale, non corporea, dei cittadini nella realtà digitale: accumuliamo, infatti, al suo interno connessioni, memorie, investimenti emotivi e temporali che, nel corso del tempo, aumentano la vulnerabilità della nostra identità sociale, culturale ed esistenziale e rendono più complesso il nostro approccio alla dimensione online.

Un esempio specifico che avvalora questo concetto di carne digitale – vulnerabile, soffice e non del tutto decomponibile – è dato dagli attuali comportamenti umani in presenza di un lutto. Il fatto di investire una quantità considerevole di tempo quotidiano nella costruzione delle nostre identità online, soprattutto all’interno dei social media, implica una sopravvivenza post mortem delle nostre cellule digitali che rende più critica l’elaborazione del lutto. Ne ho parlato più volte nel blog: i profili social, se da una parte offrono un prezioso scrigno dei ricordi al dolente, dall’altra rendono più difficile l’accettazione del distacco. Ogni singolo giorno, infatti, il dolente ritrova davanti ai suoi occhi immagini, parole, suoni del proprio amato defunto che impediscono, di fatto, l’inizio di un nuovo mondo senza di lui. Quell’insieme di dati online, complice la particolare temporalità che vige in Rete, sembra rendere fisicamente presente colui che non c’è più, intercettando da un punto di vista psicologico ed emotivo il desiderio recondito di aver vissuto solo un brutto sogno. D’altronde, questa carne digitale favorisce tutti quelle dinamiche romantiche di comunicazione tra i vivi e i morti che sono alla base degli stessi Continuing Bonds, rimandando la mente – al tempo stesso – alle teorie spiritiche del XIX secolo.

Prendere coscienza che, oramai, siamo coinvolti emotivamente e fisicamente nella dimensione online è, a mio avviso, un punto di partenza fondamentale per cercare di comprendere i meccanismi della Rete e per affrontare con più raziocinio possibile le conseguenze della frequentazione dei vari luoghi online. Pensare ancora che vi sia una contrapposizione tra reale e virtuale e che la caratteristica propria della dimensione online sia un’asettica immaterialità significa sottovalutare l’impatto emotivo che tale dimensione comporta nella vita di tutti i giorni. E, di conseguenza, significa non comprendere i nuovi codici simbolici che regolano il nostro atavico rapporto con la morte e con la perdita. Non è questo lo spazio per un’approfondita analisi teorica del nostro essere corpo nei vari luoghi online. Mi limito soltanto a proporre qualche suggestione che permetta di mettere meglio a fuoco quella realtà “onlife”, di cui parla Luciano Floridi, che oramai testimonia il carattere obsoleto di una distinzione rigida tra l’online e l’offline.

Lascio, come sempre, a voi lo spazio per esprimere dubbi o considerazioni in merito.

https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2021/08/onlife-significato-neologismo-e1628089448968.jpg 265 349 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2024/05/93409bba-2fe8-4231-86b3-36648bff989e.png sipuodiremorte2021-08-05 09:00:002021-08-04 17:10:48Carne digitale. La nostra presenza corporea nel mondo online, di Davide Sisto

Quando i corpi dei morti continuano a vivere insieme a noi, di Davide Sisto

9 Dicembre 2016/9 Commenti/in Ritualità/da sipuodiremorte

images-2Secondo Hans Belting, noto storico dell’arte tedesco, la ragione principale per cui poniamo sulla tomba dei nostri cari una loro fotografia – meglio, la migliore fotografia a nostra disposizione – è la seguente: fornire di un “corpo immortale” la persona deceduta, di modo che i vivi dimentichino in tutta fretta il processo di lenta decomposizione a cui si sottopone il suo “corpo mortale”, oramai privo di vita, dentro la tomba. Quella fotografia, in altre parole, assorbe in sé l’esistenza – perduta – della persona morta, la quale non ne “sente” più il bisogno una volta fermatosi il suo cuore, e ci permette di mentire dolcemente a noi stessi: la nostra mente associa infatti, per sempre, a chi non è più con noi un’immagine serena e solare, piena di vita, tenendo alla larga il pensiero dolorosissimo di quel corpo familiare che, lontano dal nostro sguardo, non può che disfarsi progressivamente. Come, d’altronde, richiede la natura stessa, trasformando il nostro bel fisico in un rifiuto organico. Il ragionamento, lo sapete bene tutti, è di questo tipo: già è lancinante la sofferenza per il distacco, figurarsi cosa vorrebbe dire concentrare la propria attenzione sui processi organici che hanno luogo all’interno della bara.

Molteplici sono le riflessioni che si possono fare, a partire da questa osservazione di Belting, sul nostro rapporto con la morte e, in particolare, con il corpo del morto, soprattutto tenendo conto del ruolo particolarmente complesso che svolge la corporeità in Occidente fin dagli albori dei tempi. Un tema delicato di cui, in futuro, torneremo a parlare su questo blog.

Ciò che, invece, ora mi interessa è porre l’attenzione su un rituale funebre radicalmente opposto a quello a cui siamo abituati: la cerimonia Ma’nene degli abitanti di Tana Toraja, sull’isola indonesiana di Sulawesi, che può essere tradotta – in modo più o meno corretto – come “la cerimonia della pulizia dei cadaveri”. Ogni tre anni o poco più, a seconda dei villaggi, gli abitanti (sia adulti sia bambini) costruiscono delle scale con il bambù per accedere alle tombe dei loro cari, spesso conservate anche a quindici metri da terra, all’interno di cavità rocciose. Le prelevano, le aprono, sopportano – a fatica – l’odore certo non piacevole che proviene dal loro interno e tirano fuori i cadaveri, ben conservati e mummificati grazie a una particolare soluzione di acqua e formaldeide. Giunti a questo punto, puliscono e lavano con attenzione i corpi, rivestendoli quindi con abiti nuovi, sostituendo i loro occhiali, là dove vi sia la necessità di farlo, e riparando attentamente le loro bare. Quando queste sono eccessivamente marce, le sostituiscono; quando, invece, sono i cadaveri a non essere rimasti intatti, i familiari li avvolgono semplicemente in un telo bianco. Spesso, prima di riseppellirli, li riportano per un po’ di tempo a casa e li mettono in posa, con i loro abiti nuovi e ben pettinati, per farsi fotografare insieme. I vivi con i morti. Una volta consumato il rituale, le tombe vengono nuovamente sigillate e ricollocate all’interno delle cavità rocciose. Vengono sacrificati maiali e bufali indiani per il pranzo e, in seguito, ha luogo una forma tradizionale di combattimento. In attesa di ripetere la cerimonia, trascorsi tre nuovi anni, al punto che gli abitanti di Tana Toraja mettono da parte costantemente le loro ricchezze per potersi permettere il rinnovo del rituale.

Cosa ci insegna la cerimonia Ma’nene? Innanzitutto, che per gli abitanti di Tana Toraja il corpo del defunto non “svanisce” definitivamente, una volta chiusa la bara e sotterrata (va, tra l’altro, specificato che spesso i cadaveri non vengono immediatamente seppelliti ma rimangono per qualche settimana nelle case dei parenti). Ogni tre anni questo corpo ritorna, in qualche modo, a “vivere” in mezzo alle persone che lo hanno amato quando il suo cuore batteva. Non c’è, in altri termini, un muro che separa radicalmente la vita dalla morte, la quale non è intesa come un evento di rottura definitiva. Vi è una continuazione dell’esistenza spirituale tra il prima e il poi, per cui il confine tra vivere e morire è più sfumato e il distacco è meno traumatico rispetto alle tradizioni occidentali. I morti continuano a vivere, perché il decesso è solo un momento di passaggio, da cui nasce una nuova forma di legame con le persone. La morte è sottile sottile, una sfumatura della vita. Come dimostrano simbolicamente le fotografie che immortalano i bambini, a loro totale agio, con i cadaveri dei nonni o dei genitori, vestiti in modo elegante e ricercato.

Provate a ripensare alle osservazioni di Belting: noi proviamo un senso di angoscia così profondo nel vedere con i nostri occhi un corpo senza vita, da non volerlo nemmeno immaginare con la mente. Quasi tutte le pagine giornalistiche che descrivono la cerimonia Ma’nene avvertono prima i lettori: state attenti, il servizio contiene immagini che possono disturbare la vostra sensibilità. Vedere con gli occhi quei cadaveri riesumati e rivestiti, in mezzo a bambini e adulti indonesiani assolutamente a loro agio, per noi è tanto assurdo quanto disturbante.

Credo che abbiamo molto da imparare su come affrontare la morte e su come superare certi traumi legati al pensiero dei corpi che gradualmente si dissolvono. Certo, le nostre tradizioni sono differenti e si rischia di banalizzare l’interpretazione di questi rituali, se ci limitiamo a osservarli dal nostro specifico punto di vista occidentale. Tuttavia, non ritenete anche voi, come me, che questo modo di vivere il corpo del defunto sia tutt’altro che macabro e abbia, invece, un significato educativo e spirituale veramente profondo? Cosa ne pensate?

 

 

 

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La nostra storia, il nostro corpo, il limite

Il corpo che siamo: alle radici dell’etica

18 Settembre 2014/3 Commenti/in Riflessioni/da sipuodiremorte

Ricevo e pubblico con piacere dalla bioeticista Giusi Venuti questo articolo che riflette appieno anche il mio pensiero:

Da dove viene e dove va il nostro sapere? E’ a partire da questa domanda che l’oncologo Van Potter, negli anni Settanta in America, ha fondato una nuova disciplina: la bioetica.
A suo avviso, il compito della bioetica era ripristinare e mantenere il legame del sapere scientifico e tecnologico con la saggezza, intesa come arte di utilizzare il sapere acquisito in modo opportuno. Potter intendeva invitarci a inscrivere nel “corpo che siamo” ogni pensiero, e ogni scelta etica. Una lezione di umiltà, che avrebbe dovuto riportarci alla terra dalla quale tutti nasciamo e alla quale tutti torneremo.
Eppure è facile constatare come il suo monito sia stato e sia continuamente disatteso proprio dalla bioetica, che è diventata una disciplina intellettualistica, nella quale si manovrano principi astratti e concetti vuoti e ciechi (sacralità o qualità della vita? beneficialità o autonomia?).
Siamo ancora in grado di sentire la vita che scorre nelle nostre vene e che costituisce il fondo non scontato su cui ogni presa di posizione teorica poggia?
Quando ci pronunciamo a favore della responsabilità sociale, quando difendiamo gli esclusi e i deboli avvertiamo nel corpo il peso, la paura, il disorientamento, che la nostra stessa vulnerabilità ci provoca?
Ci meravigliamo ancora della potenza di ogni vita che inizia? Siamo in grado di rendercene conto e di coglierla come una manifestazione concreta del differire, dell’essere altro da ciò che si era precostituito o immaginato?
Forse questo era l’invito più genuino di Van Potter quando, da scienziato, evidenziava l’esigenza di sapere come stiano le cose (e che le cose non siano messe bene ormai lo sappiamo tutti) ma anche il bisogno di una saggezza degli atti. Una saggezza capace di dosare e miscelare il desiderio di benessere personale con l’imperativo di rispettare gli altri e il pianeta; il sapere specialistico con la consapevolezza della complessità; la rivendicazione dei diritti individuali con la considerazione dei doveri collettivi.
Sappiamo che è molto difficile far passare nella pratica quotidiana questi richiami morali, che non a caso vengono da Potter stesso codificati in un vero e proprio decalogo.
Forse dovremmo imparare ad agire senza “entrare nella terra promessa”, rinunciando a vedere immediatamente le ricadute delle nostre azioni: ma per far questo servirebbe una nuova educazione etica, capace di accogliere la fragilità e le emozioni di chi, in quanto uomo, è chiamato ad agire con responsabilità, nei limiti di ciò che il suo corpo gli consente, nel qui e nell’ora della vita che gli è toccata in sorte. Ne siamo, ne saremo capaci?
Voi che ne pensate?

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