Cure palliative e complessità, di Marina Sozzi
La riflessione sulla complessità sembra aprire nuovi punti di vista su molte questioni, in tutti gli ambiti, compreso quello della cura. Credo che gli studi sulla complessità possano aiutare a integrare la cultura ancora troppo riduzionista della biomedicina. A patto che si tenga a mente che, come scrive Edgar Morin: “La complessità non potrà mai essere definita in modo semplice e prendere il posto della semplicità. La complessità è una parola problema e non una parola soluzione.”
Ora, le cure palliative sembrano aver in parte già assorbito l’idea di complessità, in quanto consapevoli, nella loro prassi, dei limiti del riduzionismo e del rilievo dell’esperienza soggettiva della malattia. Il tema della complessità è stato inoltre recentemente trattato in letteratura nell’ambito delle cure palliative, anche in Italia. Mi riferisco, ad esempio, all’articolo dal titolo Complessità e cure palliative, del 2019, in libero accesso sulla Rivista Italiana delle Cure Palliative, (che potete leggere qui).
L’articolo si sofferma su come individuare la complessità dei malati con bisogni di cure palliative, facendo riferimento a studi internazionali. Tra questi ultimi, uno è preso in particolare considerazione (di Sophie Pask) che mette in evidenza i numerosi elementi di cui tener conto per farsi carico della complessità dei pazienti: dai bisogni e dalle caratteristiche della persona, al cambiamento della sua situazione nel tempo, alla possibile discordanza tra paziente, famiglia e operatori, fino, allargando progressivamente lo sguardo, ai pregiudizi e alla complessità invisibile, alla disponibilità dei vari servizi specialistici, per concludere a quello che viene definito il macrosistema, ossia la società. L’articolo descrive anche uno strumento, che si chiama PALCOM, per individuare la complessità in cure palliative. Vi risparmio l’elenco dei “fattori di rischio”.
Infatti, quello che qui mi interessa è sottolineare che farsi carico della complessità, in cure palliative, va molto oltre l’identificazione del cosiddetto “paziente complesso”. La prima perplessità su tale identificazione deriva dall’impressione che in tal modo si oggettivi la complessità del paziente, e si ponga, di fronte al paziente cosiddetto “complesso”, un operatore neutrale, che “guarda” il paziente e ne valuta la complessità.
Credo invece che le cure palliative, in virtù della loro vocazione critica nei confronti della medicina, possano fare un passo più in là, anche dal punto di vista teorico.
Complesso è, in primo luogo, un sistema in cui vi è forte interconnessione e interdipendenza dei fenomeni, e instabilità della situazione. Ogni sistema ove esista il fattore umano lo è.
I nostri modelli e schemi sono ancora troppo influenzati da una visione lineare della realtà, considerata governabile e predicibile. Ma come è possibile assumere in modo più compiuto la complessità? In primo luogo occorre comprendere che in un sistema complesso:
- la causalità è circolare: in un contesto interdipendente, causa ed effetto tendono a confondersi. Ad esempio, la difficoltà a confrontarsi con una famiglia ne provoca l’aggressività o viceversa? Come è intuibile, vi sono moltissimi circoli sia viziosi sia virtuosi;
- l’approccio è olistico, ossia occorre tenere conto di tutte le parti del sistema (sia nel caso che il sistema considerato sia il corpo umano, o una famiglia, o l’intera rete locale delle cure palliative): non significa sostituire l’approccio più specialistico e verticale, ma integrarlo;
- il punto di vista di chi osserva non è neutro né passivo: il sapere nasce dall’interazione tra il soggetto attivo e la realtà. Il nostro comportamento nasce dall’interconnessione con gli altri, dall’interpretazione che diamo al contesto nel quale ci muoviamo, dalle domande che ci poniamo: cosa sta avvenendo? Che cosa provo? Che cosa prova l’altro? Che intenzioni ha?
- occorre rinunciare alle “ipersoluzioni”: ciò significa ricusare le soluzioni semplicistiche o le soluzioni normate e sperimentate, che quindi appaiono solide ed efficaci. I protocolli medici, se applicati senza porsi quesiti, sono un esempio di ipersoluzione.
Quindi come possiamo fare a «stare» nella complessità? I sistemi complessi si affrontano attraverso una strategia «try and learn», ossia mediante uno schema che prevede: azione-apprendimento-adattamento. Perché tale schema funzioni occorre allenarsi a tollerare l’incertezza e avere audacia nell’azione. Ma alla base, perché si possa «stare nella complessità» in modo costruttivo, occorre una competenza di pensiero complesso. Ma che significa?
Pensare vuol dire soprattutto vincere il pilota automatico. Infatti il nostro cervello, per risparmiare energia, attiva meccanismi ripetitivi e automatici di comportamento. Il comportamento degli individui è inoltre influenzato da un conformismo sociale spesso inconsapevole, attivato dal bisogno di essere accettati dagli altri. Gli automatismi vanno bene in tutte le situazioni semplici o complicate, dall’allacciarsi le scarpe a costruire un’automobile, ma sono deleteri qualora ci si trovi di fronte a una situazione complessa. Pensare per analogia, infatti, riduce la nostra capacità di contestualizzare, quindi di comprendere realmente che cosa stia accadendo prima di agire. Questo schema limita l’apprendimento e il continuo riadattamento, che è il migliore modello per le situazioni complesse. Il dubbio è il pilastro centrale del pensiero complesso.
Attraverso il dubbio il cervello è in grado di liberarsi dal nostro bisogno di conformismo sociale (impulsi che vengono dall’interno) o dai condizionamenti che provengono dal contesto in cui viviamo (condizionamenti che vengono dall’esterno). Occorre porsi continuamente domande senza dare nulla per scontato.
Un altro errore che potremmo fare in cure palliative è prendere decisioni coerenti con il nostro sistema di valori. Siccome farlo ci fa sentire bene, il rischio di attivare meccanismi automatici di comportamento è alto. Se prendiamo decisioni fondate sulle nostre convinzioni ideologiche, non stiamo ancorando la decisione al contesto, e potremmo essere spiazzati dalle conseguenze. In cure palliative questo aspetto sembra molto rilevante, perché la fine della vita tocca temi ideologici e religiosi.
In sostanza, il numero di domande che affiorano nella mente dell’operatore prima di entrare in azione misura la qualità del suo pensiero e in particolare la sua «ridondanza cognitiva», che è la capacità di farsi le domande giuste, di riuscire a cambiare prospettiva per osservare la situazione da punti di vista differenti. E per farsi le domande giuste, occorre allenarsi, nutrire l’attitudine a dubitare e a non dare nulla per scontato. Maggiore è il numero di domande che ci si fa quando si deve prendere una decisione, minore sarà la probabilità di essere sorpreso dagli eventi e di generare soluzioni semplificatorie. L’importante non è non sbagliare mai, ma apprendere dalla situazione e dagli errori, e moltiplicare le domande.
Mi interessa molto la vostra opinione. Se siete operatori, avete esempi di situazioni complesse nelle quali avete saputo porvi le domande giuste? O al contrario esempi di situazioni in cui non siete riusciti a mettervi in gioco e non avete dubitato delle vostre soluzioni? E ancora, pensate che questa riflessione sia utile, che possa far crescere le cure palliative?