Per favore non dite niente
Ho letto d’un fiato il recente romanzo di Marco Ciriello, edito da Chiarelettere, che parla di malattia, di morire, di perdita, e di… calcio, e ho voluto intervistare l’autore.
Perché ha voluto scrivere questa storia? Un’affezione per il personaggio che l’ha ispirata? O piuttosto un interesse per l’esperienza della malattia e della morte di una persona insostituibile?
Questa storia l’ho scritta riconoscendo un dolore mio nelle parole di un’altra persona, ed ho cominciato un lungo percorso di immaginazione, ho messo insieme più storie e personaggi e il risultato è “Per favore non dite niente”. È un romanzo che contiene un mucchio di cose che esplora il dolore attraverso l’amore strutturandosi in ragionamenti filosofico calcistici. Senza André Gorz o Ernesto De Martino non avrei avuto la forza di pensare una storia così. C’è Carver applicato al calcio, e il calcio applicato al racconto carveriano sulla normalità della vita, in un percorso di perdita. Mi serviva una dimensione precisa, con una disciplina e degli obiettivi certi, per questo ho scelto il calcio.
Questo suo libro, frammentario, con molti salti temporali, sembra dirci che stare accanto a chi è malato, e poi muore, sia arduo, e produca una sorta di sgretolamento del mondo interiore. E’ così?
Sì, ho provato con la scrittura a restituire la perdita e il percorso della malattia. Ogni giorno di dolore è una discesa, uno spostamento. Il dolore e la perdita sono principalmente stupore, uno stupore che ci rende nomadi, non credo che ci renda migliori, nomadi sì, ci portano in spazi che non ci appartengono, stupendoci, e lì comincia un lavoro di adeguamento, senza essere mai educati, non c’è metodo, solo possibilità di provare e riprovare, cercando di adeguarsi, a volte riesce a volte no, con una amarezza di fondo, fino a quando il vuoto diventa presenza, con una lingua e una immagine diversa.
“Magari si potessero barattare le prodezze sul campo con un solo giorno in più con la donna che ami”. Il lutto non è dunque solo dolore bruto, ma anche potenziale ricchezza, cambiamento in grado di farci dare un nuovo ordine alle priorità, per maturare. E’ ciò che pensa?
Chiunque abbia avuto a che fare con l’irreversibilità della perdita entra in questa ottica, baratterebbe tutto per tornare indietro, c’è persino chi non ne esce più da questa fase, soprattutto se scambia la perdita per una punizione di Dio. Io ne ho avute di perdite devastanti ed è ovvio che abbia riflettuto a lungo su dolore e irreversibilità, in ogni romanzo c’è molto di quello che ci accade ma almeno nei miei niente è una confessione.
Il titolo “per favore non dite niente” richiama la convinzione del protagonista che chi cerca di esprimergli vicinanza dica in genere frasi inopportune, o poco sentite. Crede che sia molto difficile stare vicino a chi ha perso un congiunto?
Bisogna distinguere: io non mi riferisco all’elaborazione del lutto che ha bisogno di molte discussioni, né a come amici e parenti declinano il ricordo di chi è andato via, ma parlo del funerale, del congedo. Si dicono un mucchio di banalità davanti alla morte, è preferibile abbracciare, e parlarne dopo, magari senza improvvisare. Generazioni di filosofi e scrittori non sono riusciti a dare una risposta efficace, figuriamoci se può riuscirci uno che magari è andato al funerale per educazione e si sente elevato a rispondere a un mistero. Avrei preferenza di non conoscere quelle risposte.
Personalmente, non so nulla del gioco né del mondo del calcio. Ma ho pensato che questo libro abbia anche il pregio di parlare a un numero di persone maggiore rispetto a quelle raggiunte, di solito, dalla letteratura che tratta di malattia e di morte. Lo pensa anche lei? E’ un obiettivo che le interessa?
Non lo so, me lo auguro, quando scrivo penso alla credibilità di quello che racconto non al numero di lettori. In molti mi dicono di aver pianto durante la lettura, e poi di quello che hanno vissuto o rivissuto. Il mio obiettivo è scrivere storie credibili, mescolando persone vere e personaggi che invento, e nella confusione di tempo e realtà, nella riproduzione e invenzione di vite che credo si trovi la letteratura. Se non parliamo di morte e amore di cosa dobbiamo parlare? Mi hanno detto che la mia storia “ha la forza dei romanzi russi” non so se è vero, di certo ho molto studiato Dostoevskij e Albert Caraco che non è russo ma ne ha la forza, e molti altri, e nemmeno sto lì a gongolarmi, per questo che ritengo un complimento enorme. Penso che sì, magari è anche così, ma lo dirà il tempo che, come per la vita, è un critico spietato, obiettivo, concretissimo.