Le cure palliative pediatriche: una risorsa nell’accompagnamento dei bambini inguaribili, di Cristina Vargas
Non è facile trovare le parole per parlare della malattia grave, della sofferenza e del fine vita dei bambini. Mentre scrivevo questo articolo mi sono accorta quanto ogni frase mi sembrasse insufficiente e superflua, incapace di cogliere la profondità del dolore dei piccoli malati e delle famiglie che si trovano ad affrontare queste drammatiche situazioni. Sentivo soprattutto la mancanza di un linguaggio condiviso per parlare di un tema su cui nella nostra società si preferisce tacere per “non pensarci”. Non vorremmo che fosse così, eppure succede: i bambini e i neonati possono essere colpiti da malattie per le quali non ci sono trattamenti curativi (o, se ci sono, questi possono fallire), e possono trovarsi ad affrontare percorsi carichi di sofferenza fisica e psichica.
Le cure palliative pediatriche, con il loro approccio olistico e integrato, sono una delle più importanti risorse assistenziali che oggi abbiamo a disposizione per accompagnare i bambini e ragazzi in età pediatrica affetti da patologie gravi e inguaribili, che limitano le loro possibilità di sopravvivenza. L’OMS, infatti, definisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della mente e dello spirito del bambino, al fine di alleviare la sua sofferenza e migliorare la sua qualità di vita. La cura è intesa in un’ottica olistica e integrata e include necessariamente il supporto a tutta la famiglia.
In Italia, le cure palliative pediatriche sono state introdotte grazie alla Legge n. 38 del 2010, che prevedeva l’implementazione di reti territoriali e ospedaliere per la presa in carico sia dei bambini, sia degli adulti. In diverse regioni ci sono gruppi che hanno attivato servizi efficaci e stanno portando avanti un importante lavoro culturale per diffondere le cure palliative pediatriche, tuttavia, si tratta di un campo relativamente nuovo e c’è ancora molto terreno da percorrere: la Società Italiana di Pediatria stima che ogni anno ci siano circa 30.000 – 35.000 bambini che richiederebbero cure palliative, ma purtroppo solo il 15% di questi vi ha effettivamente accesso.
Mi sono avvicinata personalmente a questo campo grazie a diverse esperienze come docente e come formatrice. In questi contesti, il mio compito è quello di riflettere, insieme agli operatori, sugli aspetti antropologici e sull’incidenza dei fattori socioculturali nei casi da loro affrontati. Durante le mie lezioni e supervisioni ho avuto la possibilità di incontrare pediatri, neonatologi, medici legali, infermieri, psicologi, assistenti sociali, assistenti spirituali e altre figure ancora. Le équipe, infatti, sono sempre multiprofessionali, perché un singolo operatore semplicemente non basta.
I problemi sono tanti. Sul piano psicologico per i genitori la malattia grave di un figlio, oltre ad essere di per sé un’esperienza drammatica, comporta un turbinio di emozioni difficili – la rabbia, la paura, la frustrazione, il senso di impotenza – che non di rado mettono in crisi l’identità soggettiva e minano la stabilità della coppia. Ciascuno, compreso il bambino quando è più grandicello e consapevole, elabora il proprio vissuto e, a modo proprio, si interroga sul senso esistenziale dell’esperienza che sta attraversando. La malattia di un figlio ha anche numerose implicazioni sociali: essa rende necessaria una drastica riorganizzazione della quotidianità intorno ai bisogni assistenziali del piccolo malato e, soprattutto nei nuclei più vulnerabili, amplifica il rischio di povertà. Nelle famiglie è inoltre necessario conciliare il lavoro e la cura e capita che uno dei coniugi (quasi sempre la madre) debba rinunciare o ridurre il proprio lavoro. Nei nuclei a volte ci sono altri figli: fratelli e sorelle che rischiano di diventare “invisibili” perché tutto sommato “stanno bene”, e il dolore per chi invece bene non sta è troppo grande per lasciare spazio ad altri pensieri. Insomma la complessità è molto elevata e solo la collaborazione sinergica fra figure con competenze diverse può accogliere bisogni psicologici, umani, spirituali, sociali e clinici.
Fra le famiglie ci sono italiani e stranieri; persone benestanti o in difficoltà economica; reti familiari allargate e nuclei monoparentali; coppie coese e solide oppure in guerra fra loro. C’è chi soffre in silenzio, c’è chi urla, c’è chi si allontana, c’è chi crede di non avere le forze e invece da qualche parte le trova.
Anche le storie di vita e di malattia dei pazienti sono molto diverse. Ci sono, per esempio, situazioni prevedibili, in cui si sa che la condizione del neonato o del bambino è incompatibile con la sopravvivenza a lungo termine. In questi casi la pianificazione condivisa delle cure rende possibile concordare con l’équipe come gestire il tempo che resta senza interventi invasivi, facendo uso della terapia del dolore e di tutto ciò che è necessario per garantire al bambino il maggior confort possibile. Ci sono, all’estremo opposto, casi in cui la situazione deriva da un evento acuto i cui esiti non sono prevedibili, e dunque si deve decidere di volta in volta se andare avanti o fermarsi, facendo sempre i conti con l’incertezza.
Ci sono situazioni che iniziano già durante la gravidanza, e percorsi che coinvolgono ragazzi di quindici anni o sedici anni, che sono pazienti cronici e conoscono da tempo la loro malattia: qualsiasi cosa gli adulti credano, loro sanno, pensano, scelgono e, anche se minorenni, e alla loro voce va dato il giusto peso.
Cii sono poi bambini affetti da malattie degenerative neurologiche e metaboliche, oppure con gravi patologie irreversibili che causano disabilità severa senza prospettive di cura: in questi casi le cure palliative rappresentano una via per accompagnare la famiglia a lungo termine. Le cure palliative pediatriche, infatti, non sono le “cure della terminalità”, nel senso che non riguardano solo le fasi finali, ma prevedono iter assistenziali che durano a volte anni. Esse iniziano al momento della diagnosi, e continuano anche in concomitanza con altre terapie curative quando queste sono attuabili.
Tutti questi percorsi, per quanto diversi, sono accomunati da una filosofia che pone al centro una visione olistica della persona e della cura, che dà valore alla relazione, all’ascolto, e all’alleanza, e che ha uno sguardo sempre attento all’appropriatezza delle scelte cliniche. Sono centrali anche la dignità e il rispetto della volontà dei genitori e, quando possibile, del bambino o ragazzo, tenendo conto della sua età e del suo grado di sviluppo. In conclusione, mi sembra essenziale sottolineare l’importanza di garantire il diritto di accedere alle cure palliative pediatriche a tutti coloro che ne avrebbero bisogno. È quindi fondamentale colmare le lacune che ancora ci sono e, parallelamente, introdurre la filosofia e l’approccio palliativo in tutti i contesti ospedalieri pediatrici che si confrontano con l’inguaribilità.
Avete esperienze dirette o indiretto con questo tema? Attendiamo, come sempre, le vostre considerazioni.