Il Dìa de Muertos: la festa messicana dei morti, di Cristina Vargas
Il primo e il due novembre, i popoli indigeni del Messico si riuniscono per celebrare il ritorno temporaneo dei morti. Questa festa, centrale nella vita cerimoniale e spirituale di queste comunità, oggi è condivisa in tutto il paese: ovunque si preparano degli scheletrini di zucchero e cioccolato; si inforna il pane dei morti e si cucinano i tamales, un piatto tipico che ha come base un impasto di mais, nel quale si avvolgono le verdure, le spezie, la carne e altri ingredienti. Le strade di tutto il Messico si coprono di festoni di carta ritagliata e di fiori di cempoalxúchit (Calendula americana). I cimiteri e le case si riempiono di candele e altari con cibi e bevande, e persino chi vive all’estero si adopera per costruire un luogo con tutto l’occorrente per accogliere i defunti.
Questa commemorazione, dichiarata dall’UNESCO Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità il 7 novembre 2003, esprime una concezione ciclica della vita e della morte che ha profonde radici nell’immaginario mesoamericano. Per i popoli nahua, maya, zapoteca e mixteca, chi muore non scompare completamente. Il corpo è animato da un principio vitale che permane dopo la fine biologica: è il tonalli, un termine che in spagnolo può essere tradotto come alma (anima) o ánima (spirito). Gli spiriti degli antenati e dei defunti, finché vengono ricordati, dimorano nella terra dei morti e, in un certo periodo dell’anno, possono transitare verso il mondo dei vivi, incontrare le loro famiglie, mangiare, bere e condividere con loro un frammento di vita. Per usare le parole dell’antropologo messicano José Eric Mendoza Lujàn:
La morte non ci può raggiungere mentre ci sia una persona che ci commemora, che ci ricorda. È per questo motivo che in questa celebrazione non c’è il cordoglio, non c’è lutto, non c’è dolore. Non puoi ricevere un parente, un amico, un antenato con le lacrime agli occhi. È un tempo per festeggiare.
L’incontro con gli antenati, tuttavia, non è semplice sotto il profilo simbolico. Incontrare i defunti, da un lato, è un evento atteso e desiderato, che esprime l’affetto per chi non c’è più; dall’altro è un contatto temuto, che richiama le incertezze dell’ignoto e la necessità di mantenere la separazione fra ciò che è “di là” e ciò che è “di qua”. Nella festa dei morti i richiami visivi espliciti, che a tratti sconfinano nel macabro, uniti a un certo “eccesso” di convivialità hanno la funzione di esorcizzare l’angoscia del contatto con la morte. La paura non è assente, anzi, essa emerge con chiarezza in una delle narrazioni orali raccolte da Miguel Ángel Rubio e Metzli Yolosochitl Martinez, che hanno documentato i riti legati a questo giorno in varie regioni del Centro e Sud del Messico:
… alcune persone dicono che i morti non arriveranno, che non sono più come noi vivi, che non esistono più. Ma loro esistono. Quando gli anziani pregano l’aria è ferma, non c’è nessun vento, nulla, e tu preghi con loro. E, a un certo punto, senti una folata di vento, un’ombra che ti passa a fianco: sono loro che arrivano. (…) Chi non crede, invece, è raggiunto dai defunti di notte, mentre dorme: vengono a infestare le loro case, a spaventarli.
Oltre agli altari familiari, in molte regioni del Messico si offrono dei cibi e delle bevande alle “anime solitarie”, ovvero quelle dei defunti che non avevano legami significativi quando erano in vita. Questi altari, volti ad accogliere e a placare anche gli sconosciuti, testimoniano il carattere comunitario di questa festività, che non è solo un’occasione di incontro fra i vivi e i morti, ma è anche un momento di aggregazione fra i vivi.
Contrariamente a quanto spesso si pensa, l’origine del Día de Muertos non è preispanico: si tratta di una festività sincretica, che nasce dall’incontro fra le concezioni precolombiane dell’aldilà, il cattolicesimo che fu imposto durante la conquista e la colonizzazione e un insieme di simboli, pratiche e credenze contemporanee (non ultimo Halloween), che man mano si sono mescolati per produrre la festa come oggi la conosciamo.
Fra Diego Durán, missionario e storico spagnolo del XVI secolo, descrisse nella sua Historia de las Indias de Nueva España due feste dedicate ai morti. La prima era Miccailhuitontli, ovvero la festa dei “piccoli morti”, che si celebrava nel nono mese del calendario nahua (che corrisponde all’incirca al mese di agosto). La seconda era la Festa Grande dei Morti, che veniva celebrata nel mese di ottobre. Entrambe queste date coincidono con il periodo di crescita e raccolta del mais, che fin dall’epoca preispanica rappresentava la principale fonte di sostentamento dei popoli nativi. Si trattava dunque di riti collegati alla stagionalità agricola. Temendo tutti gli eventi che avrebbero potuto ostacolare il buon andamento del raccolto, gli indigeni interpellavano gli antenati e invocavano la loro protezione offrendo doni, oblazioni e sacrifici. La ciclicità della natura e la ciclicità della vita si intrecciavano simbolicamente a partire da un principio di reciprocità fra i vivi e i morti: i primi erano chiamati a condividere i doni del raccolto con i loro antenati, mentre i secondi dovevano farsi garanti della generatività della terra.
Parallelamente, dato che nei regni cattolici di Leon, Aragon e Castilla era diffusa la tradizione di preparare dei dolci che imitavano la forma delle reliquie per la festa di Ognissanti, nel mese di ottobre giungevano nel Messico cinquecentesco delle dolcissime caramelle al miele a forma di ossa, crani e femori; insieme a deliziosi scheletri di pasta di mandorle da consumare il primo novembre. Questo dolci, però, erano troppo cari perché il popolo potesse gustarli, così, in breve, gli indigeni e i creoli messicani cominciarono a “inventare” le loro versioni usando il cacao, i semi e altri prodotti tipici americani. Gradualmente, le comunità indigene spostarono le loro celebrazioni dei morti – osteggiate dalla chiesa cattolica, in quanto pagane – ai giorni dedicati alle commemorazioni di Tutti i santi, e incorporarono ai doni tradizionali (a base di mais) i dolci ispirati alla festa spagnola.
I significati originari e nuovi si mescolarono, dando luogo a una religiosità popolare sincretica, che aveva come oggetto di devozione e di culto tanto i santi quanto gli antenati. Rito e festa si mescolano in molti modi nel Día de Muertos. La vitalità e il significato di questa commemorazione stanno proprio nel suo carattere ibrido, meticcio quanto lo è l’anima dell’America Latina, che le ha consentito di trasformarsi di volta in volta, attraversando le vicissitudini storiche e sociali messicane, per dare forma a un’espressione culturale molto sentita e partecipata, che tiene insieme l’amore e il timore, il visibile e l’invisibile, la morte e la vita.