Curare chi cura: le emozioni dei caregiver, di Andrea Raviolo
Quando si parla di Alzheimer, o più in generale di demenza, una serie di immagini e di emozioni negative si affastellano nella nostra mente: una memoria che sbiadisce e progressivamente si perde nell’oblio, un volto smarrito incapace di riconoscersi nello sguardo dei propri familiari, la perdita lenta e inesorabile dell’autonomia e dell’identità, e tanti altri frammenti disturbanti che la nostra coscienza tende a scacciare e a non voler vedere.
Nel mio lavoro di neuropsicologo mi trovo quotidianamente a interagire non solo con i malati di demenza, ma soprattutto con le persone che se ne prendono cura, e che, oltre a lottare quotidianamente con gli spettri di una vita che va pian piano dissolvendosi, si trovano a dover arginare con la sola forza dei propri strumenti il mare di difficoltà e di impotenza che minaccia di travolgerli; queste persone vengono chiamate ‘caregiver’.
Sin dalla prima seduta, che sia di gruppo o individuale, o persino durante un incontro casuale davanti a un caffè, un caregiver mi pone la fatidica domanda che presto o tardi qualunque neuropsicologo si trova a dover fronteggiare: “cosa devo fare”? e poi ancora: “Quali sono le parole, le mosse ed i comportamenti ‘giusti’?”
La verità è che non esiste una risposta univoca; ogni cervello, e ogni storia che esso racchiude scolpita nei suoi neuroni, porta una costellazione e un marchio unici; di conseguenza elaborare delle soluzioni generali che valgano per tutti gli individui è impossibile.
Tuttavia, anche se non è possibile creare un algoritmo, non è detto che non possiamo farci guidare da buone domande che ci aiutino a non smarrirci nella difficile avventura di diventare un caregiver.
Quando mi trovo davanti un caregiver, le domande che devo pormi per cercare di comprenderne il dolore, e che allo stesso tempo devo cercare di rendere il più possibile familiari ed automatiche nella sua mente sono le seguenti:
Qual è il tuo modo di ‘andare in allarme’?
Nel momento in cui viene percepita la presenza di un altro essere umano in difficoltà attraverso uno dei nostri cinque sensi, nel nostro cervello si attiva un meccanismo di allarme antico e potente che ci spinge a dirigere irresistibilmente la nostra attenzione sulla fonte della sofferenza, lasciando sullo sfondo altri stimoli che sino ad un secondo prima ci sembravano interessanti. Tutti noi abbiamo sperimentato, ad esempio, il senso di urgenza di voltarci verso un bambino che scoppia a piangere mentre siamo sull’autobus.
Il senso di urgenza ci guida come un magnete verso i modi migliori per dare aiuto a chi sta soffrendo, ma risente anche delle nostre esperienze precoci; non tutti abbiamo imparato a gestire allo stesso modo quel suono penetrante dell’allarme che ci scatta dentro di quando in quando.
Alcuni di noi hanno imparato negli anni a silenziarlo, per non venire assordati dalle continue richieste di un ambiente familiare colmo di emergenze pressanti; altri hanno dovuto imparare a riconoscerne anche le frequenze più flebili, appena udibili nelle loro case ovattate da finzioni e cautele genitoriali; altri ancora al minimo suono sobbalzano terrorizzati e immaginano scenari terrificanti che li paralizzano e li rendono incapaci anche solo di pensare.
Quando prendo in carico un caregiver, conoscere il suo modo personale -sedimentato negli anni- di fronteggiare l’allarme mi permette di entrare in risonanza in modo autentico con la sua mente e il suo cuore, e di costruire nel tempo quella che chiamo “manopola di regolazione”, ossia una serie di strategie personalizzate utili a gestire l’intensità del suono emotivo.
L’alleato più prezioso che ci viene in soccorso in questo delicato compito è il corpo; attraverso esercizi mirati e ripetuti, è possibile aumentare il senso di sicurezza e di padronanza, partendo dalle sensazioni fisiche, ottenendo risultati duraturi e che non passano attraverso i canali verbali. Maggiore è la padronanza che un caregiver riesce a ottenere sulle proprie reazioni fisiche in caso di allarme, maggiori saranno le possibilità di agire in modo efficace e senza inutile dispendio di energie.
Qual è il tuo modo di dare aiuto?
La fase dell’allarme è solo la prima di un lungo processo: dopo che il suono si è attutito e il nostro caregiver può nuovamente contare su una maggiore presenza di spirito, un nuovo scenario mentale si apre, e si attiva il sistema atto a percepire i bisogni dell’altro e a preparare il proprio armamentario di accudimento a fornire aiuto.
Anche questo sistema è guidato in parte dalla biologia, e in parte è condizionato dalle esperienze apprese sin dalla tenera età; in altre parole, ciascuno di noi ha lo stesso strumento che possiedono gli altri esseri umani, ma ha imparato a suonare una melodia leggermente diversa e personalizzata.
Continuiamo con gli esempi: alcuni di noi, magari abituati a maneggiare con cura le emozioni per non rischiare di scottarsi troppo, preferiranno dare aiuto “con la testa”, magari cercando per ore la carrozzina tecnologicamente più avanzata, o organizzando i referti di visite e esami in ordine cronologico per facilitare al massimo le visite cui –puntualissimi- accompagneranno il proprio caro.
Altri cercheranno di mantenere un tono di voce più alto e si muoveranno un po’ più in fretta del necessario per cercare di mantenere un ritmo sufficiente a sganciarsi da quel suono fastidioso e continuo. L’ansia li aiuterà ad essere efficienti e non fermarsi, e la loro giornata sarà piena di impegni e preoccupazioni, dalla corsa dallo specialista, telefonando lungo la strada ad una decina di amici per informarli della situazione, fino al pomeriggio, in cui cercheranno di somministrare tutti i farmaci nell’ordine giusto, preoccupandosi di ricontrollare più volte.
Altri ancora si sentiranno confusi; la memoria silenziosa di un genitore a sua volta smarrito spegnerà il loro sistema di orientamento nel mondo, facendoli sentire in balia delle proprie sensazioni, e rendendo loro estremamente difficile prendere decisioni.
La conoscenza della personale modalità di accudire è uno strumento insostituibile per cercare di mantenere il caregiver in una zona di sicurezza, ben protetto sia da un eccessivo prosciugarsi di forze sia da una distanza eccessiva.
Anche in questo caso la conoscenza del proprio corpo costituisce un prezioso alleato; imparare a riconoscere e dare spazio alle sensazioni che il nostro corpo ha imparato a comunicarci in tutte le nostre esperienze di accudimento ci aiuta a mantenere saldo il focus sull’obiettivo di fornire cure adeguate e misurate.
Quale può essere un buon modo per tenerti al sicuro? Quali risorse possiedi?
Il sistema di allarme e quello dell’accudimento operano in modo analogo al termostato che regola la temperatura della nostra casa: una volta raggiunta una condizione ottimale, essi semplicemente si spengono.
Anche noi, quando vediamo che i nostri sforzi hanno risolto un problema, e che la fonte di sofferenza che ci ha attivati si è infine placata, smettiamo di affannarci e percepiamo un piacevole sollievo, insieme a un senso di soddisfazione nel vedere che la situazione si evolve verso uno scenario di tranquillità.
Ad esempio, proviamo a pensare alla tiepida emozione che ci pervade dopo aver consolato un amico in difficoltà, o alla pace che sentiamo nel corpo nel vedere che il nostro bambino smette di piangere dopo che l’abbiamo consolato.
Il problema delle demenze risulta purtroppo evidente prima ancora della fine di questa frase: poiché la condizione di un malato di demenza non è curabile e si aggrava progressivamente, il sollievo di assistere alla guarigione non arriverà mai. Fanno ovviamente eccezione quei momenti in cui un caregiver riesce a rendere più piacevole o confortevole un momento della giornata del proprio caro, e possono essercene davvero tanti. Ma la sostanza rimane la stessa; lo sforzo di accudire sembra non avere fine.
Di solito propongo due strategie ai familiari consumati dallo sforzo di accudimento.
La prima è trovare, elencare e imparare ad accendere le nostre risorse, che possono essere di vari tipi: somatiche, emotive, spirituali, naturali e altre ancora. L’esperienza di accesso alle risorse permette di ricaricare le energie e di contattare la nostra parte di autoguarigione.
La seconda, di gran lunga più importante, è smettere di accudire.
Probabilmente questa frase suonerà come un pugno nello stomaco per molti.
Può sembrare un gioco di parole, ma l’accudimento non è affatto l’unico sistema a nostra disposizione per dare cure; esiste anche un’altra opzione, che è quella della cooperazione. Cooperare significa mettere le proprie forze a disposizione di una squadra per raggiungere un obiettivo comune, ma senza dover compiere in prima persona tutto il lavoro.
Troppe volte i caregiver restano incastrati in una logica di accudimento forsennato e si sostituiscono totalmente ai loro cari nelle incombenze, per quanto piccole, della vita quotidiana; troppo spesso le loro energie vengono spese tutte insieme, e al tempo stesso il malato sviluppa il sospetto – che diventa rapidamente convinzione – di non essere in grado di adempiere a nessuno di quei compiti che vede svolgere con tanta solerzia da chi gli sta accanto.
La convinzione del malato di non essere in grado di portare a termine un compito si trasforma nella rinuncia a provare: la psicologia chiama questo fenomeno ‘impotenza appresa’. Ma un malato che “non ci prova nemmeno” diventa rapidamente un peso maggiore, e richiederà una quantità ancora maggiore di sforzi assistenziali da parte del caregiver: il circolo vizioso che si instaura è tristemente evidente.
Un caregiver cooperante è una persona che accetta di abdicare alla pretesa di essere insostituibile (e non sempre tutti gradiscono questo pensiero) e di delegare al malato una parte del carico – proporzionata alle risorse in suo possesso – per lavorare insieme e ottenere un risultato condiviso.
Questo scenario mentale costituisce la base di una pratica quotidiana in grado di distribuire il carico emotivo fra caregiver, malato, e tutte le persone della rete familiare, amicale e medica che potranno e vorranno essere coinvolte nel gioco di squadra.
Potenziando le abitudini cooperative, il caregiver potrà così conservare le sue preziose riserve di cura per tutte quelle situazioni in cui il malato non potrà partecipare al gioco, aumentando i tempi di ricarica e prevenendo così la temibile sindrome da burn out da accudimento.
Come non smetto mai di ripetere, il caregiver è membro attivo e principale dell’equipe curante; riconoscerlo è facilissimo: è quello senza camice.