La vita estranea. Intervista a Mario Balsamo, di Marina Sozzi
Abbiamo intervistato Mario Balsamo, regista documentarista, scrittore e docente di regia cinematografica, perché quest’anno è uscito il suo ultimo libro, La vita estranea, “romanzo tra escapologia e fine vita”.
Ci racconti l’esperienza che ti ha portato a scrivere questo libro, La Vita estranea?
Se vogliamo andare indietro negli anni, l’esperienza della mia malattia grave, un tumore dentro la gamba destra, mi ha portato a riflettere non solo sulla mia morte ma anche su come è concepita la morte nella nostra società. Da lì ho cominciato a impegnare la mia capacità narrativa intorno a questo tema. Non sono uno studioso, quindi ho pensato a storie da raccontare (a cominciare dalla mia ‘avventura’) che poi sviluppassero questo argomento.
In particolare, in La vita estranea mi è venuto in mente un escapologo, cioè una figura alla Houdini: chi esce fuori da qualsiasi contenitore chiuso e inchiavardato, si liberi da qualsiasi tipo di legaccio. Mi pareva che potesse essere una metafora (attraverso un personaggio di fantasia) adatta a raccontare il nostro rapporto con la morte in questa società, attraverso chi la sfida ogni giorno, a chi pensa di beffarla.
Possiamo sfuggirle da sotto le dita all’infinito? Naturalmente no, perché è un aspetto della natura umana. Da un bel po’ sono convinto che il modo migliore per affrontarla è quello di dialogarvi e quello di conoscerla per quanto possibile, mettendo in conto la sua imprevedibilità.
Di vederla come un qualcosa che fa parte del ciclo della vita, piuttosto che negarlo.
Il protagonista di La vita estranea, da presuntuoso e illuso paladino dell’immortalità, deve cominciare a confrontarsi con quella che sarà la sua, di morte, tra l’altro imminente, scoprendo delle verità inaspettate. Che lo portano a familiarizzare col fatto che lui dopo poco non ci sarà più.
Nel tuo libro ci sono due voci, l’io morto e l’io in vita del protagonista Leo, che hanno due stili di scrittura diversi. Come hai immaginato l’Aldilà? Cosa succede alla personalità del protagonista alla luce della morte?
Ho un pensiero un po’ particolare sull’Aldilà, condito dalla fantasia propria dei narratori. E’ come se l’Aldilà sia per ognuno come se l’è immaginato in vita. Quindi non con delle punizioni per le cose negative commesse, quanto continuando a vivere con i difetti che aveva nella sua vita terrestre. Qui però all’infinito, per l’eternità. Quindi se la persona ha delle cose irrisolte, ha delle situazioni che non è mai riuscito a dipanare, se le ritroverà addosso anche nell’Aldilà: e questo credo che sia piuttosto gravoso, tormentoso, soprattutto se le cose irrisolte occupano la maggior parte di sé. Mi trovo anche a riflettere se esista o meno la reincarnazione. In effetti questa idea, reincarnarmi fino a quando il mio kharma non sarà “pulito”, è interessante: pone le basi di una giustizia compensatoria delle ingiustizie di cui il mondo è pieno, seppur una compensazione che avverrà attraverso l’arco di più vite.
Mi ha colpito la definizione dell’hospice: “L’hospice è un luogo in cui chi sta per passare oltre viene aiutato a spiccicare qualche parola con la morte, nel tentativo di trovare un senso alla fine”. Che immagine ti sei fatto, in realtà, dell’hospice?
Gli hospice, almeno nella loro filosofia, nella realtà di quello dove ho fatto il volontario e in quello dove sto girando il mio documentario “In ultimo” (la struttura “Anemos”, gestito dalla fondazione Luce per la vita), sono dei luoghi in cui si cerca di dare al malato terminale una morte dignitosa, da una parte togliendogli – per quanto possibile – il dolore fisico, dall’altra assistendolo sul piano psicologico e spirituale. E’ difficile far pace con la propria morte, credo però che gli hospice possano alleviare quello che in molti casi è il terrore della morte, intanto svincolandolo dal dolore fisico. Sono temi molto delicati per cui è difficile dire in quanti casi ci si riesca. Quello che so è che negli hospice da me visitati ho respirato un’aria di serenità: e questo credo che sia già un grande risultato.
Il protagonista ha il terrore della morte, e non voleva pensarci (da vivo), anzi afferma di sentirsi (o addirittura di essere) immortale. Rispecchia una situazione autobiografica, o piuttosto un problema della nostra cultura?
Credo che rappresenti sia un dato autobiografico (superato) sia una convinzione che purtroppo ha preso piede nella nostra società: la convinzione che la tecnologia medica non solo possa allungare la prospettiva di vita, ma anche, addirittura, arrivare, prima o poi, a farci conquistare l’immortalità. Questa follia ha un risultato negativo immediato: le persone sempre più spesso muoiono impreparate. Cioè, per fare degli esempi, non si sono accomiatate dai propri cari, non hanno potuto lasciare una sorta di eredità spirituale a chi sta loro vicino, o hanno dovuto lasciare dei brutti conti in sospeso (non risolvere le incomprensioni che hanno portato allo scontro o all’allontanamento di persone care). Riuscire a fare tutto ciò in termini proficui significa un bene per tutti.
A un certo punto del libro scrivi: «Il paradosso è che la vita e la morte fanno parte l’una dell’altra, eppure sono inavvicinabili.» Cosa intendi esattamente?
Sì, è un paradosso, però estremamente vero. La vita fa parte della morte quanto la morte fa parte della vita. Forse io, in quanto Mario Balsamo, e quindi al di fuori dei personaggi del romanzo, sono convinto che in fondo la cosa stia come la disse Carl Gustav Jung: la morte è il fine della vita, non la sua fine.
Leo quando scopre di avere un tumore ha soprattutto una grande angoscia, quella di perdere la dignità. Cos’è per te la dignità alla fine della vita?
Il concetto della dignità della morte è complesso da esaminare. In generale penso si possa affermare che consista nel non perdere i fondamenti (fisiologici e spirituali) dell’essere umani. Il cosa significhi poi nello specifico varia in ciascuna persona. C’è anche chi ritiene che, seppur le attività corporee e parte delle funzioni cerebrali siano minate, la vita conservi una sua dignità. In costoro permane una straordinaria, robustissima voglia di vivere. Per quanto mi riguarda, credo che la dignità dell’essere umano stia nel mantenere tutte le funzioni di cui siamo normalmente dotati, sia sul piano fisico, sia mentale, sia spirituale. Aggiungo anche che per garantire a ciascuno la propria convinzione di quale sia la dignità della vita e della morte, debba essere permessa per legge la determinazione della propria fine; quindi, il diritto a un suicidio assistito qualora la persona lo decida; certo, monitorato ed esaminato attentamente da coloro che sono preposti ad esprimere un parere su tali richieste. Io non so, qualora diventassi un malato terminale con gravi menomazioni, se me la sentirei di scegliere la soluzione del suicidio assistito, forse no, però vorrei che questo fosse un diritto mio come di tutti gli altri.