Si può dire morte
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Ogni generazione inventa i propri linguaggi. Per gli adolescenti di oggi i pensieri si scandiscono, si aggrovigliano e si snodano al ritmo del Rap, della Drill, della Trap e delle altre forme musicali poco etichettabili che delineano scenari tanto disturbanti quanto quotidiani. Le rime tratteggiano la geografia dei quartieri periferici, abbozzano emozioni, frustrazioni e sogni, catturano immagini di sballo, di soldi e di spaccio. Qualche volta, le parole ritmicamente scandite raccontano anche riflessioni sul futuro, sulla vita e sulla morte.

L’adolescenza è un tempo di domande irrisolte; di affetti travolgenti e burrascosi; di corpi difficili; di rivendicazioni di autonomia che si alternano a un desiderio profondo di rifugio e di protezione. L’adolescenza è un periodo di violenta discontinuità in cui il sé adulto emerge improvvisa e irreversibilmente dall’oceano dell’infanzia, producendo una “seconda nascita” in cui trova fondamento la struttura psichica delle fasi successive.

In questa fase di vitalità, di crescita, di interrogativi identitari, di sete di esperienze e di prime esplorazioni sessuali c’è anche una scoperta significativa di cui si parla poco: quella della propria e dell’altrui mortalità.

L’adolescenza è infatti un’età in cui la concezione del tempo subisce un radicale trasformazione. Il corpo cambia e ragazzi e ragazze sono chiamati a “mentalizzare” una nuova corporeità sessuata. Gradualmente i giovani dovrebbero acquisire la capacità di comprendere e accettare questa trasformazione per poter “abitare” un corpo – e un ruolo – adulto. Un corpo che cresce è, però, anche un corpo che è destinato a invecchiare: svanisce così l’illusione di poter abitare indefinitamente il tempo ciclico, familiare e ripetitivo dell’infanzia e ci si comincia a confrontare con un tempo lineare, diacronico e irreversibile.

La morte, per gli adolescenti, non è solo un qualcosa di astratto su cui si riflette nelle ore di filosofia e di letteratura, ma è qualcosa che li riguarda da vicino e sulla quale percepiscono un profondo bisogno di interrogarsi sul piano esistenziale. Chi sono? Che senso ha la mia vita, ora che so che un giorno finirà? Sono queste le domande che si muovono nelle “pance” e nelle menti dei ragazzi.

Nonostante l’importanza del tema della morte in adolescenza, per gli adulti non è affatto semplice parlare con loro di questo argomento. I genitori e i nonni adottano frequentemente un atteggiamento iperprotettivo, ed evitano di parlarne per timore di sovraccaricare figli o nipoti con un fardello che considerano troppo gravoso da portare. Questa situazione si complica ulteriormente quando c’è una malattia terminale o un lutto all’interno della famiglia. La morte in questi casi c’è, e non può essere celata, ma raramente se ne parla apertamente: è un “non detto” che pesa come un macigno nel gruppo familiare. Eppure, anche se appaiono “grandi”, i ragazzi hanno ancora bisogno di essere sostenuti e guidati nell’affrontare le esperienze di perdita. La reazione di un adolescente di fronte a un lutto è spesso disorientante tanto per il ragazzo stesso, quanto per gli adulti che gli stanno intorno: pur avendo una piena capacità di comprendere il significato teorico della morte, i ragazzi in questa fascia di età non hanno ancora raggiunto una piena consapevolezza delle implicazioni affettive di un’esperienza luttuosa.

Anche a scuola il tema della morte è raramente oggetto di attenzione specifica e, quando se ne parla, si tende a farlo in una chiave più intellettuale che esperienziale. Tuttavia, in tempi recenti, soprattutto prima dell’emergenza Covid, alcune realtà hanno cominciato a proporre dei progetti formativi (a scuola e non) in ambito tanatologico, che permettano di rendere la morte un tema “dicibile”, qualcosa su cui è possibile confrontarsi, riflettere, discutere, ascoltarsi e ascoltare. A questo proposito un’esperienza per me particolarmente significativa è il laboratorio “Perdite, distacchi e riconquiste”, che ho curato insieme alla psicoterapeuta Caterina Di Chio. Il percorso era rivolto alle classi quarta e quinta della scuola secondaria di secondo grado, ed è stato condotto con la metodologia dello psicodramma, che consente di esplorare la realtà psichica attraverso l’azione teatrale. Prima di iniziare, nei colloqui con genitori e insegnanti, si è palesato un certo timore che il tema potesse “turbare” i gruppi, e siamo state avvertite dai docenti della vivacità di una delle classi e della tendenza alla chiusura di un’altra. Tuttavia, anziché esserne spaventati o turbati, i ragazzi hanno apprezzato la possibilità di parlare della perdita, della morte e del lutto in modo aperto, e si sono messi in gioco portando sulla scena i loro vissuti più significativi.

Il percorso ha offerto ai partecipanti uno spazio protetto per esprimere la propria verità usando i propri linguaggi e per lavorare come gruppo sulla rielaborazione e sull’integrazione delle loro esperienze, emozioni e pensieri, raggiungendo così una maggior consapevolezza del ruolo del lutto come esperienza dolorosa, ma anche costitutiva della propria biografia e del proprio percorso di crescita.

Gli interventi formativi sul fine vita rivolti ai giovani, specialmente quando si usano metodologie partecipative e si dà spazio alla loro voce, sono momenti preziosi per promuovere una maggior consapevolezza su questo tema e per sviluppare risorse importanti di fronte alle sfide inevitabili dell’esistenza come la resilienza, la capacità di auto-osservazione e l’ascolto reciproco. Sarebbe importante promuovere percorsi di questo tipo, specialmente in un momento come quello attuale, in cui la pandemia e più recentemente la guerra hanno costretto bambini e ragazzi a confrontarsi con paure profonde, che fino a qualche anno fa sembravano troppo lontane per destare reale preoccupazione.

E voi che ne pensate? Quali sono le vostre esperienze, positive o anche faticose, nel parlare della morte con gli adolescenti e i giovani?

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