Il rapporto dei migranti con la morte e il lutto. Intervista a Federica Gagliostro, di Davide Sisto
Abbiamo intervistato la Dott.ssa Federica Gagliostro, che lavora da circa nove anni nel campo dell’immigrazione, in particolare nell’ambito dell’accoglienza dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana e della protezione dei richiedenti asilo politico. Attualmente opera presso Xenia SRL Impresa Sociale di Torino e ha tra i suoi committenti la prefettura di Torino. Nel corso degli anni, ha portato avanti diversi progetti – SPRAR, FER, accordo Maroni – nel campo dell’accoglienza. Abbiamo ritenuto interessante chiedere a chi lavora quotidianamente a contatto con i ragazzi provenienti dall’Africa subsahariana qual è il loro rapporto con la morte e con il lutto. Di seguito, il resoconto della chiacchierata, dalla quale si evincono alcuni comportamenti specifici, al di là delle differenze religiose, culturali e sociali del singolo paese africano di origine.
Federica Gagliostro sottolinea subito le difficoltà oggettive nel trovare una convergenza fruttuosa tra il nostro specifico modo di vivere la morte e quello dei ragazzi con cui lavora. Proprio per questo auspicherebbe la presenza al suo fianco di tanatologi, ossia di esperti nell’ambito degli studi sulla morte, che sarebbe fondamentale per migliorare le attività di supporto, soprattutto in relazione all’elaborazione del lutto. Quasi tutti i ragazzi infatti, dice Gagliostro, nonostante la giovane età, sono entrati in contatto prematuro con la morte – dei propri familiari, dei propri amici, dei propri conoscenti. Un’esperienza destabilizzante, che accresce le difficoltà nella relazione con loro: queste morti producono spesso situazioni di vero e proprio “congelamento sociale”, per usare un’espressione di Gagliostro. Vale a dire, una specie di “distacco temporaneo” dalla società, che richiede un’enorme cautela da parte di chi li assiste, tenuto conto anche delle molteplici difficoltà personali vissute nel corso della loro breve vita.
Gagliostro ricorda la morte in circostanze sospette della madre di un ragazzo gambiano arrivato a Torino. La donna, naturalizzata in un altro Stato, dove svolgeva un lavoro socialmente prestigioso, torna in Gambia per ragioni personali. Benché godesse di buona salute, muore all’improvviso. Il figlio, scioccato, ha come prima reazione quella di rasarsi completamente i capelli. La rasatura dei capelli è un’azione spesso praticata dai ragazzi africani in presenza di un lutto doloroso: simboleggia infatti la manifestazione immediata dello shock, il bisogno del cambiamento e la ricerca di un nuovo equilibrio.
Le cause delle morti dei parenti rimasti in Africa rimangono perlopiù sconosciute. Ciò dipende non solo dalla distanza geografica, ma anche dal fatto che la domanda “di cosa è morto?”, che noi poniamo una volta informati di un decesso, non è invece la priorità dei ragazzi subsahariani giunti in Italia. Quando si muore si muore: non interessa, infatti, scoprire perché si è morti. La maggior parte dei ragazzi con cui si è confrontata Gagliostro riconduce la morte a cause e motivazioni che hanno a che fare con la sfera del sacro. Non si cerca di dare una spiegazione razionale, “umana”. Ogni caso di morte, compreso quello che riguarda se stessi, trascende le possibilità dell’uomo ed è frutto di una scelta definibile, in senso lato, “divina”. Pertanto, non occorre porsi domande, non occorre nemmeno pensare alla morte e alla mortalità. Ci sono invece, ad esempio in Nigeria, specifici rituali cui si sottopongono i bambini appena nati, con cui vengono scacciati gli spiriti maligni, le malattie, e la morte. Il corpo di ciascuno di loro porta i segni di questi rituali, che proteggono dalla morte nel caso, ad esempio, che si venga colpiti da una pallottola.
Gagliostro specifica che ci sono differenze culturali tra uno Stato e l’altro. L’Africa è gigantesca e generalizzare è impossibile. Tuttavia, per la sua personale esperienza nel corso di questi nove anni di attività lavorativa nell’accoglienza dei migranti, coglie un approccio alla morte molto diverso dal nostro. Noi, in Occidente, non parliamo di morte perché ci pare inopportuno, perché viviamo come se non dovessimo morire mai, perché il pensiero della morte genera ansia e angoscia. Ma, al tempo stesso, siamo ossessionati dalle cause della morte, poiché riteniamo utopicamente l’uomo in grado di sconfiggere il morire. I ragazzi africani, invece, pensano semplicemente che la morte non sia una questione umana. Non tocca agli uomini meditarci. Non ha senso razionalizzarla perché non fa parte della vita. Questa sorta di naturalezza nel vivere la morte, pervasa da una specie di fatalità a noi del tutto estranea, è appesantita dalla tragica normalità di vedere un corpo morto. Per loro è normale, naturale vedere i corpi morti. Li vedono durante tutti i loro viaggi: nel deserto della Libia, nelle prigioni libiche, nel Mediterraneo, che è un cimitero senza fine. Un cimitero che si appropria dei corpi i quali, scomparendo sul fondo del mare, generano profondi traumi nell’elaborazione del lutto.
Per tali ragioni, dice Gagliostro, un supporto di esperti in ambito tanatologico risulterebbe fruttuoso, innanzitutto, per colmare un vuoto assistenziale, poi per accorciare le distanze culturali e, infine, per intervenire con azioni mirate ad attutire i traumi vissuti dai migranti.
Quali sono le vostre opinioni in merito? Attendiamo le vostre riflessioni.
Sono un’antropologa e mi sono specializzata in Tanatologia. Conduco ricerca indipendente e uno dei temi che ho voluto approfondire è stato proprio il rapporto dei migranti con la morte e il lutto. Ho proposto più volte a fondazioni e ad associazioni che si occupano di accoglienza nell’area metropolitana di Milano, dove vivo, dei progetti intorno a queste tematiche. Curiosamente, se l’utenza si dimostrava entusiasta e anzi desiderosa di aprire dei laboratori di narrazione in questo senso, le istituzioni non hanno mai investito in questo, ritenendo che l’argomento non fosse “prioritario” rispetto alle altre emergenze dell’accoglienza stessa. A mio avviso invece poter lavorare con i migranti intorno a morte e lutto è di capitale importanza perché chi si sposta, chi migra, fa i conti quotidianamente con la dimensione della perdita e del lutto, e non si tratta unicamente della perdita delle persone care che muoiono durante i viaggi, ma anche delle varie perdite identitarie che ognuno esperisce durante gli spostamenti. Muoiono costantemente delle parti di sé di cui, nella propria vastità identitaria, le parti superstiti devono celebrare il lutto. Muoiono gli immaginari, muoiono le proiezioni di sé, le aspettative. Un’accoglienza che si pensi efficace negli attuali scenari, deve tenere conto di tutto questo anche per promuovere l’autonomia di chi migra, che possa ristrutturare a partire dalle varie dimensioni del lutto, altri immaginari e miti di sé.
Grazie, Giulia, per il tuo contributo. Condivido ogni singola parola.
Grazie per questi spunti di riflessione. Mi sembra che ci siano due aspetti, entrambi importanti, nell’articolo come nella testimonianza di Giulia. Da un lato si getta una luce sul rapporto che persone di altre culture (per lo più africane) hanno con la morte e questo è un tema importante, per quello che può insegnarci su di loro, ma anche su noi stessi. Da tre anni mi occupo di attività culturali in associazione con persone italiane e africane; attraverso lo scambio e l’interazione quotidiana con i miei soci stranieri sono riuscita a vedere moltissimo di me stessa e dalla mia (nostra) cultura e ogni volta che riesco – per differenza – a riconoscere un pezzo di me, accolgo questa conoscenza come un regalo. Credo sarebbe un’occasione per tutti aprire un confronto sul tema della morte con persone di altre culture. Un’esperienza sicuramente forte, che forse potrebbe aiutare noi occidentali a riconsiderare un rapporto per noi così difficile.
Dall’altra c’è il tema del rapporto con la morte di persone nella specifica condizione di rifugiati e migranti (spesso con esperienze dirette e dolorose di lutto), in accoglienza nelle nostre strutture. Rispetto a questo credo sarebbe necessario un cambio di impostazione radicale. Sino a quando l’accoglienza verrà gestita all’insegna dell’emergenza, tutte le dimensioni immateriali e spirituali che sono essenziali alla definizione di sé e condizione per la costruzione di percorsi successivi, difficilmente troveranno ascolto e spazio, se non in qualche rara esperienza virtuosa o nella sensibilità dei singoli operatori/educatori.
Cara Anna, condivido anche la tua analisi. C’è sicuramente un enorme vuoto sociale, educativo (nonché culturale) che potrebbe essere colmato da chi ha una specializzazione nel campo della tanatologia. Mi chiedo quanto tempo ci vorrà ancora per farlo capire a chi di dovere.