Consapevolezza della mortalità: ma come?
Parliamo spesso dell’esigenza di raggiungere la “consapevolezza della mortalità”. Ci siamo detti, anche su questo blog, che la consapevolezza porta buoni risultati nelle nostre vite: la capacità di stare nel presente, il sentimento della nostra e altrui fragilità e vulnerabilità, e quindi lo sviluppo di un senso di maggiore responsabilità e umanità.
Ma come? Come facciamo a raggiungere questa maturazione personale vivendo immersi in una cultura che continua a indurci a mettere da parte il pensiero della morte e a sentirci immortali e onnipotenti?
Per me il fattore di cambiamento è stato la malattia, che mi ha messo in pericolo di vita già a trentacinque anni, portando nuovi pensieri e atteggiamenti nella mia quotidianità. Certo, però, non possiamo auspicare di ammalarci per diventare più saggi.
Per di più, non è detto che la malattia o il dolore portino profondità e saggezza. A volte seminano il germe della rabbia e della rivolta. Pochi giorni fa raccoglievo fondi in un ospedale piemontese per un’associazione di cure palliative, e una donna ha rifiutato sdegnosamente di prendere il pieghevole. «Ne ho già avute, io… non voglio più sentir parlare di morte».
Così ho compreso quanto sia necessario confrontarci per capire come, al di là delle belle parole, possiamo avvicinarci alla consapevolezza del limite e della finitezza.
Io sto facendo un esercizio che ha a che fare con la rinuncia: se riesco a essere meno consumista, a distanziare il desiderio degli oggetti, mi sento più fragile e stabile al contempo, più centrata e più in sintonia con il mio prossimo. Riesco a sentire che le cose, e io stessa, passeremo, e a puntare i piedi nell’oggi.
E voi? Volete raccontare le vostre esperienze? Come avete raggiunto la consapevolezza della morte? O come cercate di farlo?
Sono convinto anch’io che è molto importante impegnarsi nel diffondere la consapevolezza della nostra finitudine.
Far passare questo messaggio significa dare un concreto aiuto alle persone affinchè possano vivere più intensamente il tempo presente che in effetti è quello che conta. Io ho la fortuna di di “allenarmi” quasi settimanalmente ad alcune pratiche con l’aiuto di una Filosofa per cercare di migliorare il mio servizio verso i malati terminali. Eccone alcune: Stare con quello che c’è qui ed ora, Vivere il presente, Ricordarsi che abbiamo potere sul come e non sul che cosa delle nostre vite, Saper ascoltare, Non giudicare, Trovare la distanza che ci permette di vedere i problemi invece di esserne schiacciati, Cercare di mantenere l’armonia nelle relazioni con gli altri, Investire di attenzione anche le piccole cose che facciamo(sarà meno faticoso anche pulire la casa se metteremo attenzione al modo in cui eseguiamo i piccoli gesti ), Prendersi cura di sé per poter prendersi cura degli altri, Evitare gli estremi e gli eccessi, percorrendo “La Via di Mezzo”, Chiedersi sempre: Ciò che faccio dà vita a me, dà vita agli altri e lascia vita dietro di sé? ,Conoscere se stessi.
Anch’io Roberto, nel volontariato all’Hospice, sono guidato da una psicologa buddista che applica il rilassamento ai malati tramite la consapevolezza del respiro. Giungo alle tue stesse sensazioni che mi confermano quello che ho da tempo messo in atto per la consapevolezza della finitudine… ma non sempre mi basta ed allora entro in crisi, mi pare che anche la morte degli altri tolga respiro alla mia e prendo un po’ di distacco dal volontariato, poi ritorno!
Fernando
Personalmente ho capito che la morte riguarda tutti noi quando è morto il mio ragazzo a 44 anni. E faccio fatica ad accettare questa realtà. E’ vero dovremmo essere più consapevoli del fatto che la vita finisce inevitabilmente con la morte. E non si muore solo di vecchiaia. Ma io credo che niente, nemmeno una malattia, nemmeno la perdita di una persona cara possa farci entrare in testa questo concetto. Non siamo programmati per la morte. Tossicodipendenti alcolisti, sanno perfettamente che si stanno facendo del male, ma continuano, perchè in qualche modo la morte no può riguardare loro. E così tutti noi pensiamo che la morte riguardi gli altri, è una cosa ‘ che si vede in tv’.
Non so se è una questione culturale, se è perchè non ne parliamo mai del fatto che dobbiamo morire, ma la realtà è questa. E non so se c’è un modo per arrivare alla consapevolezza della morte. Certo questo ci risparmierebbe un sacco di affanni inutili e porterebbe a concentrarsi veramente sullo stare bene insieme alle persone che si amano. Ma non è così. Forse parlare, discutere della morte può aiutare. La morte è la naturale conseguenza della vita.
Questo è un argomento del quale parlare mi costa una gran fatica. Perchè io sono una di quelle persone che fa fatica anche solo a concepire l’idea della mortalità. Trovo – perdona l’espressione – contro natura l’idea stessa della finitezza. Anche se è, probabilmente, il traguardo più in sintonia con la natura che ci sia, insieme alla nascita. E ancora oggi, alla bella età di 42 anni, faccio molta fatica a confrontarmi con l’idea che ci sia – ci sarà, inevitabilmente – un termine a tutto quello che sono oggi, che fa della mia vita un’esperienza piena.
Sono d’accordo con te quando scrivi che la rinuncia agli oggetti avvicina agli altri e consente di puntare i piedi nel presente. E’, quest’ultimo, il mio personale esercizio degli ultimi 2 anni. Non so se sia capitato solo a me, ma la soglia dei 40 anni ha costituito una sorta di spartiacque, come se una consapevolezza diversa – più sofferta in quanto basata su un’idea “a tempo” – mi avesse colto all’improvviso mettendomi di fronte ad una questione – la mortalità, appunto – da cui avevo sempre rifuggito.
Quello che mi sta aiutando, in una ricerca di serenità interiore che contempli anche l’idea di finitezza (anche se, devo essere onesta, è ancora qualcosa con cui faccio fatica a confrontarmi), è lo studio delle filosofie orientali. Non come una sorta di appiglio a cui aggrapparmi ma come interesse per una visione olistica di corpo e mente che riconduce ad unità e fa una sintesi di dimensioni solo apparentemente separate. Non ho idea di dove questo studio mi condurrà, ma trovo che mi aiuti ad affrontare il confronto con me stessa su questi temi.
Grazie per le vostre riflessioni, per la vostra preziosa condivisione. Grazie a Veronica, e a Simona che ci ricordano quanto difficile sia ricordare la nostra mortalità, a prescindere da cosa ci è accaduto nella vita, e grazie a Roberto, che ci ha indicato la sua strada.
E comunque….l’Oriente, grande maestro dell’Occidente su questo tema!
Uno dei primi approcci con la mortalità riteniamo essere il nostro specifico pensiero filosofico, frutto della nostra personale eserienza inerente la professione e la cultura in senso lato. Più estensivamente l’argomento ci coinvolge quando le circostanze ci “favoriscono” l’incontro con la sofferenza fisica e psicologica (attacchi di panico sino all’inverosimile) estreme; momento in cui può accadere l’evento morte… Circostanza che viene recepita da chi sente sfuggire la vita, ma anche da chi è presente, come fatto ineluttable e nello stesso tempo come rifiuto e angoscia.
Aldo Giacardi (Medico)
Ernesto Bodini (Comunicatore Sociale)
per lavoro, tutti i giorni, mi confronto con la morte (quella dei miei pazienti). quando penso alla mia, non mi fa paura. la penso un po’ come una specie di trasformazione tra l’essere ed il non essere. proprio oggi qualcuno mi diceva che è brutto morire soli, senza nessuno accanto. io credo invece che la morte sia un evento estremamente intimo e che non ha bisogno di spettatori. in quanto alla mia, spero di avere la piena consapevolezza del momento e potermi di lasciare andare dolcemente.
L’atteggiamento dell’uomo nei confronti della morte è contraddittorio: da una parte ognuno, a detta sua, è cosciente della fine necessaria a cui la sua vita arriverà, eppure ne rifugge continuamente il pensiero perché è qualcosa che distrugge ogni certezza, che annienta i castelli di carte che l’uomo costruisce per se stesso e di cui ha bisogno. Guardando la realtà attraverso le lenti della morte ho acquisito una prospettiva completamente diversa: mi sono reso conto di come la società, il lavoro, la famiglia, insomma tutto ciò che normalmente si tende a chiamare “vita” non sia altro che una sorta di “passatempo”/illusione che l’uomo si costruisce ma in cui arriva a credere così fermamente da dimenticarsi della natura effimera della sua esistenza: come ho letto giustamente in commenti precedenti, si comincia inconsciamente a pensare di essere immortali, a confondere la realtà con la nostra illusione ed a pensare che quest’ultima debba necessariamente perdurare… solo per renderci continuamente conto che non è così.
Come io vedo la morte? Come l’unica vera “scienza”, la via che conduce alla risposta definitiva su Dio, la natura e l’uomo. Come inscindibile dalla vita, la quale peraltro non può essere definita senza il concetto di morte. Come una grande ombra proiettata sul mio animo che mi intimorisce, mi fa sentire “nudo” e privo di alcun appiglio. L’idea che la nostra stessa esistenza, ovvero tutto ciò che ci è dato di conoscere, possa finire in un modo così apparentemente inspiegabile e assurdo, l’idea di poter semplicemente “non essere” mi spaventa e per quanto io mi sforzi non riesco a comprenderla fino in fondo. Cosa ci sia dopo la morte, non credo che nessuno lo sappia per certo. Io faccio fatica ad accettare l’esistenza di un Dio e/o di una vita altra, eppure penso che non si debba neanche fare del nulla la propria religione: l’ateo dichiarato crede in qualcosa, il nulla appunto. Io non riesco a farlo.
Il recente e brusco arrivo del concetto della morte nella mia vita ha rivoluzionato il mio modo di vedere la realtà e nonostante il mio animo ne sia costantemente turbato sento di aver raggiunto un punto di vista più alto e non riesco a rinunciarvi, anche a costo della mia serenità.
Molte altre cose potrei dire, ma per non tediarvi ulteriormente concludo con un paio di domande che fungano da spunto di riflessione per tutti noi: di fronte alla contemplazione della morte ed alla prospettiva di un potenziale “nulla eterno”, cosa ha un senso nella vita dell’uomo? Quali valori permangono, quali ideali si reggono stabili e non vengono spazzati via dall’infinito? E se davvero tutto ciò che la nostra vita comprende, che ci rende FELICI e che dà un senso alla nostra esistenza (l’amore, la famiglia, l’arte, la società, la religione, etc.) è una mera illusione da noi costruita per noi stessi, vale la pena di distruggerla per una lucida contemplazione del VERO o è forse meglio abbandonarci ad essa?
Caro Paolo, i problemi che pone non hanno, naturalmente, una soluzione. Non credo però sia solo una questione di vero e apparenza, di nuda realtà e illusione. Penso che essere consapevoli di essere mortali (non concettualmente, ma proprio nel sentirsi fragili), ci permetta di superare la distanza che ci separa spesso artificialmente dagli altri, e possa renderci più umani, capaci di provare a realizzare l’umanità dell’uomo.
Lei sa che cosa ce dopo la morte?
Sorella
Conosco la strada
Per giungere a te.
M’inviti con fare suadente
mi spogli
di orpelli e ricordi.
Sorella che chiamo e invoco
mi lasci nel fango
perenne del mondo.
Rimani lì
spettrale presenza
che inerme riposa.
Altre strade percorro
e i sensi obnubilati
dai ricordi
estinguono
gocce di sangue
in rivoli
intrisi di morte.
Si fondono come metalli
i giorni
piegati dal male,
si sente un fruscio d’ali
che affogano in calici amari.
Sei dolce sorella, m’ inviti
a cedere il passo terreno
che affonda in acque stagnanti.
Nell’alba sferzata
dal vento
sussurri parole che sento,
le ore
si fanno crudeli,
mi sfidi
sorella di morte.
La vita
sospende il tuo passo
davanti alla porta di casa
distendi
un tappeto di stelle.
Abbaglia la luce
che inonda
la notte imbevuta di pianto.
Vieni, sorella gentile
appendi
il tuo livido manto
e innalza il tuo macabro canto.
Dissolvi paure
E rimpianti,
cancella tormenti,
spalanca le pietre
sfregiate dal male eterno
che sfida e perde il tuo solo verbo.
in riferimento alle osservazioni di Paolo del 15.01.2014
“Non vidi mai una brughiera,
non vidi mai il mare,
ma so che aspetto ha l’erica e che cosa è un’onda.
Non ho mai parlato con Dio
ne’ visitato il cielo,
eppure so dov’è,
come se avessi il biglietto per entrare”.
Emily Dickinson
Il pensiero della morte è diventato sempre più reale da quando l’ho toccato con mano, attraverso la morte dei miei genitori. Ho dovuto a farci i conti, fuori dalle illusioni, cercando un senso che mi potesse pacificare.
Quando in me prevale la nuda ragione e vedo soltanto l’oscura fossa a cui sono destinata, e si affacciano sentimenti depressivi, penso che l’unico vero senso possibile di questa vita sia stare accanto alle persone che si trovano nella sofferenza e cercare di lenirla almeno un poco con una vicinanza accogliente e rispettosa. Se anche fosse tutto assurdo, tutto legato al caso, la sofferenza qui e ora è reale e l’aiuto all’altro sofferente, per quanto piccolo, ha senso, dà senso alla mia vita.
Quando prevale il pensiero del cuore, accetto l’ignoto con fiduciosa attesa di un compimento e la vita diventa un cammino di consapevolezza di proprie luci ed ombre che ha come obiettivo la mente consapevole e giusta, a cui si riferiscono tutte le spiritualità.
Possiamo effettivamente pensare con la ragione e pensare con il cuore, e si hanno visioni così differenti. In me non prevale nessuna delle due, oscillo, poi si vedrà
Questo tema e quanto vi gira attorno (malattia grave, ecc.) è stato già ampiamente sviscerato in questo blog. E’ vero, come afferma Marina, che nella nostra società occidentale del vitalismo e dell’efficienza la morte e quanto vi è riconnesso è costantemente rimossa, fino a diventare un enorme tabù. Basta avere l’occasione di viaggiare in Oriente o studiarne religioni e filosofie per comprendere quanto là si insista sulla provvisorietà (l’impermanenza) della nostra esistenza, quanto questa sia inserita più che sottoposta nelle leggi della natura, quanto il nostro ego ipertrofico là sia visto come una patetica illusione. Ma anche questa visione non cancella il dolore, il grande fardello del nostro vivere e morire. Qui vorrei aggiungere che la morte di persone care è una mutilazione spesso devastante, ma non è mai la stessa cosa quando la vicinanza della morta ci riguarda in prima persona. Purtroppo non credo che sia possibile diffondere una maggiore consapevolezza della morte, o meglio vorrei distinguere: esiste una conoscenza razionale delle cose, l’essere mortali è un dato noto e scontato. Ma, come ci insegna la psicoanalisi, un conto è il dato di realtà, un conto è il vissuto emotivo. E quindi, purtroppo, credo che sia proprio la malattia grave che ci porta a prendere consapevolezza anche emotiva della nostra mortalità. Prima, viviamo sempre come se fossimo immortali e onnipotenti. Questa nuova dimensione può “ucciderci” prima del vero e proprio morire, ma può anche regalarci una nuova visione degli altri e di noi stessi, attraverso la condivisione della comune fragilità, paura, inadeguatezza. E, quando il tempo stringe, farci assaporare con un gusto nuovo, a volte fin esaltante, quel che di bello ancora la vita ci riserva.