Seppure in ritardo rispetto ai paesi anglosassoni, l’Italia ha approvato nel 2010 una buona legge sulle cure palliative, la n. 38, la cui importanza è stata ribadita anche con la successiva legge n. 219 del 2017. Oggi, a distanza di dieci anni, ci sono ancora lacune nella sua applicazione. Mancano strutture hospice, soprattutto per patologie non oncologiche, mancano équipe di cure palliative domiciliari in grado di occuparsi di pazienti fragili e non oncologici, ma manca, soprattutto, la cultura palliativa, sia nella medicina territoriale che in ospedale. Ora le cure palliative, a distanza di dieci anni dall’approvazione della legge 38, entrano all’università, diventando una specialità tra le altre da poter scegliere dopo la laurea in medicina.
È una buona notizia? Senz’altro sì. Questo approdo, da molto tempo auspicato, dà alle cure palliative maggiore dignità e importanza, e le sottrae a un perenne destino di cenerentola della medicina. E ci sarà finalmente una ricerca in cure palliative, come in altri paesi europei.
Vorrei però guardare a questo cambiamento dal punto di vista dell’analisi della mentalità. Come possiamo immaginare che cambierà la visione dei medici da un lato, e dei pazienti, dei familiari e dei cittadini in generale dall’altro, quando ci saranno palliativisti formati attraverso una specialità universitaria?
Senz’altro, poco per volta, finirà quell’atteggiamento di ostracismo e resistenza passiva così frequente nei nostri ospedali e tra i medici di famiglia. Forse non accadrà più che un medico ospedaliero, di fronte a una donna sofferente e morente e alla figlia che vorrebbe riportarla a casa e attivare le cure palliative, dica scandalizzato: “lei vuole far morire sua madre”. Forse non accadrà più neppure che una donna piena di dolore, che chieda cure palliative al suo medico di famiglia, si senta rispondere: “Perché? Lei non sta ancora morendo” (episodi che risalgono entrambi a pochi mesi fa).
I medici di medicina generale si abitueranno a inviare i propri pazienti ai palliativisti così come li inviano ad altri specialisti. Smetteranno cioè di pensare che tutto sommato le cure palliative non aggiungano nulla rispetto a quanto essi stessi conoscono e sanno praticare. La modificazione di questo atteggiamento, indotta dall’ufficializzazione accademica, sarà senz’altro fondamentale, sia per far crescere le cure palliative, sia per ampliarne la possibilità di accesso per le persone sofferenti. In modo analogo, in ospedale ci saranno palliativisti che prenderanno in mano le situazioni difficili, dal punto di vista del dolore e della sofferenza. L’esperienza del Covid ha sicuramente impresso un’accelerazione al varo della specialità universitaria.
Una competenza specialistica in cure palliative, benché di grande rilevanza, sembra tuttavia non essere sufficiente. A fronte di specialisti molto più riconosciuti, infatti, vi sarà la stessa ignoranza sulle cure palliative tra tutti gli altri medici. I quali si sentiranno totalmente legittimati a non sapere quello che alcuni loro colleghi studiano in specialità. Il rischio è che tendano a sparire le cure palliative di base e la loro conoscenza diffusa (già carente nel nostro paese), con l’aggravarsi della incompetenza generalizzata della classe medica e infermieristica. Per ovviare a questo problema sarà indispensabile offrire corsi di alfabetizzazione in cure palliative in tutti i setting di cura e per tutti gli operatori sanitari, in ospedale e nelle RSA, senza trascurare i medici di medicina generale.
Non si deve dimenticare che le cure palliative non sono solo uno strumento di controllo del dolore, e più in generale della sofferenza nei pazienti con patologie inguaribili; ma rappresentano anche una filosofia, un’istanza culturale, un modo di guardare alla vita e alla morte. E, da questo punto di vista, sono state una spina nel fianco della biomedicina, portatrici di un atteggiamento critico e talvolta rivoluzionario, che ha contribuito a restituire all’ultimo tratto dell’esistenza i suoi diritti, la sua capacità di rappresentare ancora un momento ricco di vita e addirittura di compimento di un’esperienza biografica. Non c’è solo una medicina palliativa, c’è una cultura, una filosofia palliativa.
Proprio in quest’ottica, i cittadini hanno un’importanza fondamentale. Pensarli come passivi destinatari di cura è profondamente errato. Con l’introduzione degli specialisti in cure palliative, ci sarebbero probabilmente alcuni cambiamenti anche sul versante della popolazione.
Da un lato, la maggior considerazione che deriverebbe ai palliativisti dai colleghi medici potrebbe avere un effetto positivo anche sui cittadini, che smetterebbero di pensare che le cure palliative siano quelle che “non servono a niente”.
Non basta, però. Il rischio per i pazienti e i familiari è di affidarsi ciecamente al palliativista come sovente fanno con altri specialisti, delegando totalmente. Invece, buone cure palliative si fanno “insieme” a pazienti e familiari. Come si diceva sopra, le cure palliative sono qualcosa di più e di diverso da una specialità medica. Anche se istituzionalizzate, penso che non debbano perdere la loro vocazione contestataria. E che occorra continuare a lavorare anche sulla mentalità dei cittadini, per ottenere quel cambiamento nella visione della mortalità e del morire, senza il quale le cure palliative non riusciranno ad acquisire veramente un diritto di cittadinanza.
Siete d’accordo? Che cosa ne pensate?
Carissima Marina, grazie per questo interessantissimo post. Da medico esperto in cure palliative vorrei aggiungere un paio di riflessioni:
La prima è che l’istituzione della Scuola di Specialità in “Medicina e Cure Palliative” per i laureati in Medicina e Chirurgia (art. 5 bis del Decreto Rilancio che recita al comma 1) e l’introduzione de “il corso di cure palliative pediatriche nell’ambito dei corsi obbligatori della Scuola di specializzazione in Pediatria” (comma 3) è certamente una buona notizia e segue l’istituzione della disciplina di cure palliative, che è avvenuta ad opera del Consiglio superiore di Sanità nel 2012. La buona notizia risiede a mio giudizio nel fatto che i colleghi che sceglieranno questa carriera formativa lo potranno fare come una prima scelta, e non come avveniva fino ad oggi quando dovevano prima prendere una specialità totalmente diversa per poi convertirsi alle cure palliative. Concordo però sul fatto che questo processo andrà monitorato e accompagnato dalla società civile e anche dalle cure palliative istituzionali, per evitare distorsioni ed accaparramenti accademici pericolosi per la formazione. Nel passato questo è avvenuto per i master universitari quando capitava che i direttori ed i docenti dei master non avessero alcuna competenza, preparazione o affinità con le cure palliative, ma di fatto insegnavano nei corsi stessi. Ora non è più così, ma il rischio che questo accada nelle scuole di specialità esiste, non fosse altro perché attualmente pochissimi palliativisti veri sono anche accademici. Spero che gli atenei comprendano che una disciplina così particolare deve essere insegnata da chi la pratica, da chi scrive i libri di testo cui quali ci si forma, da chi porta avanti la ricerca e stila le linee guida cliniche e le raccomandazioni di buona pratica.
Il secondo punto poi riguarda la multidisciplinarità e la mutliprofessionalità delle cure palliative. Lo dico per sottolineare che nessuno è titolare delle cure palliative, non lo sarà dunque neanche il medico specialista del futuro. Chi ha inventato e sviluppato le cure palliative ci insegna che il miglior medico palliativista del mondo non sarà mai in grado da solo di dare sollievo alla sofferenza di chi è affetto da una condizione che richieda le cure palliative. Infermieri, OSS, psicologi, fisioterapisti, logopedisti, assistenti sociali, assistenti spirituali, volontari (ed un sacco di altri che ometto per brevità) insieme ai medici palliativisti costituiscono una unità di cure palliative e insieme valutano i bisogni dei pazienti e dei loro cari e li affrontano. E poi, rimanendo in ambito medico, le cure palliative si fanno CON i medici di medicina generale e CON gli altri specialisti. Dobbiamo creare la cultura di RETE, dove ciascuno ha il suo ruolo ed insieme si protegge chi soffre. Scusate lo sproloquio, ma ci tengo a dire che questo sarà un risultato straordinario, ma in questa fase embrionale dobbiamo proteggere e accudire gli specialisti del futuro e coltivare il terreno fertile affinché essi possano lavorare senza distorsioni o pressioni accademiche, apprendendo le conoscenze necessarie, ma rimanendo nell’alveo delle cure palliative concrete.
Grazie di cuore Simone per questa tua integrazione, che ci fa comprendere molto bene, e in dettaglio, opportunità e rischi di questa novità.
Condivido completamente sia l’articolo della dottoressa Sozzi sia le puntualizzazioni del dott Veronese.
Le cure palliative le intendo come una rete di vari referenti e non solo del medico palliativista perché potrebbe incorrerre nell’eccessiva individuale specializzazione anziché avvolgere il malato e la famiglia di diffeeenti interventi e professionalità
grazie dottoressa Ravizza
Se fossi un giovane medico, neolaureato, la “specialità” in cure palliative sarebbe per me una scelta non prioritaria. Qualsiasi neolaureato di buon senso capisce che per arrivare a curare chi muore occorre prima percorrere una lunga strada e arricchirsi di molta esperienza nella pratica clinica. Può essere una buona idea, come in altri Paesi, farne una “super-specializzaione” e non una semplice “specialità.
Giorgio Di Mola
Caro Giorgio, come in tutte le cose l’esperienza è un ingrediente fondamentale della competenza. Tuttavia, credo vi siano invece giovani medici che la pensano diversamente da te, e che desiderano cominciare la loro carriera come palliativisti. E speriamo che questa scelta sia loro garantita, con la formazione migliore possibile.
LE CURE PALLIATIVE VENGONO SOMMINISTRATE NEGLI HOSPICE CHE SONO …..CASE DI MORTE SICURA ………..I MEDICINALI SONO COSTOSISSIMI E A CARICO DELLA REGIONE CHE PER 2 SETTIMANE LI PAGA PER OGNI UTENTE RICOVERATO IN HOSPICE E POI…LA MORTE……..GLI OPPIACEI VENGONO SOMMINISTRATI ANCHE A CHI NON HA DOLORI E SONO L’ANTICAMERA DELLA MORTE……E’ UN BUSINNES DELLE CASE FARMACEUTICHE E DEI SOCI DI CAPITALI DEGLI HOSPICE CHE SONO PRIVATI MA RICONOSCIUTI DALLA REGIONE…………IL TESTAMENTO BIOLOGICO E’ L’UNICA ARMA GIURIDICA PER LA TUTELA DI CHI SI TROVA RICOVERATO SU “CONSIGLIO DEL MEDICO CURANTE” E DEI FAMILIARI OBBEDIENTI ED INESPERTI……………………………..V E R G O G N A
Un’accozzaglia di stupidaggini senza fondamento che non meritano alcuna risposta nel merito
Gentile Avvocato,
La invito a scusarsi per Il Suo post offensivo, sicuramente generato da sentimenti personali non correttamente elaborati.
Proprio in quanto Avvocato, dovrebbe già sapere che le Cure Palliative sono regolate e promosse come diritto umano da una legge dello Stato che ha compiuto dieci anni, votata all’unanimità dal Parlamento.
Il”testamento biologico”, termine così poco tecnico per definire le Disposizioni Anticipate di Trattamento, è normato dalla legge 219/2017 che conferma ulteriormente il ruolo centrale delle Cure Palliative nelle fasi decisionali più critiche della vita delle persone.
Sarà mia cura segnalare le Sue dichiarazioni al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della Sua Provincia.
Dott.ssa Maria Grazia Ruggieri
Grazie, dottoressa Ruggieri, per questa risposta garbata che non avrei avuto la pazienza di dare.
Vergogna a lei, che si permette di scrivere cose che non conosce (nella migliore e più generosa delle ipotesi) senza citare fatti né fonti, in un contesto in cui si sta discutendo di altro. Non si permetta mai più di scrivere fake news su questo sito.
La Specialità in Medicina e Cure Palliative è una grande, quasi insperata conquista. Molte delle osservazioni contenute nell’articolo di Marina e nel commento di Gianfranco sono condivisibili. Una in particolare, laddove si paventa il rischio che negli Atenei alla fine non si porrà così tanta attenzione alla Filosofia delle Cure Palliative, dando spazio prevalentemente a docenti universitari che poco conoscono della materia e non coinvolgendo chi la materia l’ha letteralmente “costruita” mattone su mattone. Ne uscirebbero così specialisti più “dotti” ma “senz’anima”. Poco di diverso, cioè, da quello che stiamo cominciando a veder accadere da qualche anno a questa parte. Giovani neospecialisti in discipline affini che conoscono perfettamente metabolismo e attività degli oppioidi, ma spesso in difficoltà nella relazione col malato e restii all’adattamento al lavoro d’equipe. Franco Toscani, uno dei pionieri delle Cure Palliative in Italia, sosteneva 25 anni fa che quando questa disciplina fosse stata concretamente ufficializzata nel nostro Paese, allora sarebbe cominciata la sua fine. Spero che non fosse pioniere anche nelle previsioni!
Cara Daniela, speriamo davvero che Franco, così lungimirante su tanti fronti, su questo si sia sbagliato. Molto dipende da noi, tutti noi che ci occupiamo di cure palliative a vario titolo, non dobbiamo abbandonare il campo e continuare a diffonderne la cultura.
Grazie di questa importante riflessione, in effetti tocca molti punti importanti ed accoglie alcune mie perplessità in merito.
Complimenti per la pagina.
Raffaele Giusti
Oncologo Medico
Master II livello in Cure Palliative al Paziente Oncologico.
Grazie infinite dottor Giusti.
Alla domanda: che cosa ne pensate? rispondo che sono felice di sapere che si apre per i medici una specializzazione in cure palliative. Spero che si incrementino anche analoghi percorsi per il personale infermieristico.
La mia forse è una realtà di provincia ma qui l’hospice é ancora visto come ‘luogo dove si va a morire’ e quindi spesso le famiglie scelgono di tenere a casa l’assistito a scapito sicuramente di una terapia antidolirofica adeguata. C’è ancora molto da fare in merito. L’informazione sui luoghi dove si attuano cure palliative é ancora troppo carente.
Perfettamente d’accordo con la dr.ssa Sozzi e il dr. Veronese, soprattutto laddove quest’ultimo pare chiedersi, come ho fatto io nel leggere la notizia, “ma gli insegnanti, DOVE li troveranno?”
Domanda non banale.
G. Gambino
Medico Palliativista, Bologna
Ringrazio per questo articolo. Felice per l’apertura della Specialità in Cure Palliative. Più che mai consapevole della necessità che le persone siano sempre più responsabili del proprio benessere in ogni momento della propria vita, auspico che la “Filosofia palliativa” informi di sè, sempre più, la medicina tutta.
Mi permetto, se posso, di invitare anche alla lettura del recente, bellissimo articolo sullo stesso argomento, del Dr. Franco Toscani, comparso su Sienza in rete. https://www.scienzainrete.it/articolo/le-cure-palliative-medicina-sfidata-cambiar-pelle/franco-toscani/2020-08-23
L’istituzione della scuola di specializzazione in medicina palliativa è un’ottima notizia e rafforza le cure palliative come disciplina autonoma e con vita propria. Il problema di fondo rimane quello di rendere uniformi i servizi di cure palliative in tutta Italia. Attualmente ogni regione ha regolamentazione diversa e, addirittura, ci sono hospice nella stessa città che forniscono servizi completamente differenti. Qualcuno, forse per convenienza, preferisce che gli hospice abbiano un’impronta piu sociosanitarie, altri fanno lavorare medici neolaureati per convenienza. Ecco quindi che la specializzazione rappresenta un grande passo in avanti, ma ancora non basta . Ci vogliono regole chiare a livello nazionale in modo che si lavori con competenza e coscienza da nord a sud.
Dr. Francesco Scarcella
Medico palliativista