I farmacisti dell’università di Padova, nel Cinquecento, avevano idee chiare. E radicali. Avevano coniato il motto: “Herbis non verbis medicamina fiunt”. Vale a dire: ciò che cura sono le erbe, non le parole. Le erbe erano l’unica risorsa curativa su cui facevano affidamento; le parole le svalutavano come chiacchiere. Trasposta ai nostri tempi, la sentenza dei farmacisti padovani suonerebbe: “Pillole, non parole”. Tutto quello che in medicina si fonda sul sapere biomedico e sulla tecnologia (dunque farmaci, vaccini, risonanze magnetiche, respiratori e quant’altro), in alternativa alla risorsa costituita dalla parola condivisa: domande, risposte, narrazioni, ascolto, conversazione. Due metà: la prima efficace, la seconda superflua; al più facoltativa e supererogatoria.
Forse nessuno oggi osa formulare una sentenza sul modello di quella dei farmacisti padovani. Ciò non implica, però, che l’altra metà della cura, quella costituita dalle parole, sia tenuta nella debita considerazione. Basta vedere il posto che le è riservato nel percorso formativo dei professionisti. La capacità di comunicare nella modalità che è richiesta dalla cultura del nostro tempo non è sistematicamente presa in considerazione.
Una delle formulazioni più convincenti di questa impreparazione è offerta dal medico americano Jerome Groopman nel libro Anatomia della speranza (Vita e Pensiero, 2004). La speranza di cui parla è diversa dall’ottimismo e non ha niente a che vedere con una percezione edulcorata della realtà. Equivale al mondo interiore del malato, al cammino stesso che deve percorrere nel territorio della cura. Ebbene, Groopman riconosce apertamente che i malati erano per lui e per gli altri studenti soprattutto un’affascinante sfida intellettuale. Finendo per chiudere fuori dalla porta tutto ciò che non coincideva con l’interpretazione degli esami di laboratorio, delle immagini diagnostiche e delle biopsie. Non esita a dichiararsi “impreparato”: è il titolo del primo capitolo della sua autobiografia medica. Tutto ciò che esulava dai contenuti della formazione esplicita ricevuta andava imparato con l’esperienza. E di questa esperienza – fatta a spese dei malati – Groopman non teme di fare un resoconto accurato, riportando i casi nei quali ha sbagliato per difetto o per eccesso di informazione, a causa della formazione che non aveva ricevuto.
Non tutti i clinici sono così espliciti nell’ammettere l’insufficienza dell’equipaggiamento con cui la formazione li ha avviati in prima linea nella pratica della medicina. In generale però sono costretti a riconoscere che la competenza comunicativa non ha fatto parte del bagaglio di capacità che sono state oggetto del curricolo. I frutti amari di questa incompetenza, che abbiamo trascurato, li vediamo dilagare sotto i nostri occhi. Sono la benzina che accende gli scontri tra i curanti e coloro che ricevono le cure, sia pazienti che familiari.
Paradossalmente, proprio in contemporanea con la seconda ondata della pandemia da Covid, assistiamo a un deteriorarsi dei rapporti. Medici e infermieri denunciano affronti, intimidazioni, offese e scontri verbali, che talvolta degenerano ulteriormente in aggressioni fisiche. Ci rendiamo conto che l’arte stessa della cura, nonostante disponga di risorse terapeutiche che non hanno riscontro in nessun’altra epoca storica, è affetta da una specie di sordomutismo. Ovvero di un deficit nelle due facoltà, fondamentali per la nostra convivenza sociale: l’udito e la parola. È come se nell’ambito dell’attività di cura stessimo diventando sordomuti: incapaci di sentire la voce dell’altro, privati della parola. Più esattamente, resi incapaci di “conversare”, perché la voce che si alza è quella di grida scomposte che prendono il posto della parola condivisa, di quello scambio che presuppone il rispetto dell’altro, l’accettazione dei diversi ruoli – nel contesto della cura, il riconoscimento di competenze professionali, che proprio per questo non sono patrimonio di tutti – e l’incontro nella condivisione delle decisioni. Se per lungo tempo l’evocazione di malasanità equivaleva a denunciare errori e omissioni da parte di medici, infermieri e amministrativi, ora lo spettacolo di malasanità a cui siamo esposti coinvolge anche i cittadini. Non solo nel ruolo di vittime, ma anche di artefici. Il braccio di forza che li oppone ai curanti equivale alla fine della medicina. Non solo della buona medicina, ma della medicina “tout court”.
Non sembri una forzatura evocare, nel contesto di questa patologia che sta investendo la nostra società, un miracolo evangelico. È la guarigione di un sordomuto, riportata dal Vangelo di Marco (7, 31-36). Lo conducono da Gesù, pregandolo di “mettere le mani sopra di lui”. Il terapeuta messianico esegue alla lettera: prima gli mette le dita negli orecchi, poi gli tocca la lingua con la sua saliva: “Poi alzò gli occhi al cielo, fece un sospiro e disse a quell’uomo: ‘Effatà’, che significa ‘Apriti’”. E l’uomo all’istante udì e parlò. È così importante quella parola che l’evangelista sente il bisogno di riportarla, eccezionalmente, nell’aramaico originale.
Quell’Effatà attraversa i tempi e giunge inalterato fino a noi. In una omelia papa Benedetto XVI ha affermato che quella parola, nel suo senso profondo, riassume tutto il messaggio e l’opera stessa di Cristo. Significa contrastare la chiusura interiore, che non dipende esclusivamente da organi di senso: riguarda il nucleo più profondo della persona, quello che la Bibbia chiama il cuore. Ci sentiamo così legittimati a invocare un Effatà anche in un contesto più circoscritto, quello dei rapporti di cura. Abbiamo bisogno di un intervento che contrasti la patologia sociale crescente: l’incapacità di ascoltare, la paralisi della parola che unisce.
Il miracolo che invochiamo si chiama, laicamente, formazione alla competenza comunicativa. Non lasciata alla buona volontà di qualche professionista con vocazione umanistica, ma inserita organicamente nel percorso formativo che deve sfornare i professionisti dei nostri giorni. Non basta l’impegno a recuperare la disattenzione verso le capacità comunicative nella formazione dei professionisti sanitari, che produce una vera e propria de-formazione nella competenza relazionale, che convive talvolta con eccellenti conoscenze scientifiche; anche i cittadini vanno formati a un rapporto diverso con chi li cura. Superato definitivamente il paternalismo del passato, è tempo di dar forma a un rapporto adulto-adulto. Abbandonando le reazioni adolescenziali di tanti malati e loro familiari che caratterizzano il tempo presente. La formazione che auspichiamo è un impegno così radicale da rivendicare un tratto profetico: la buona medicina del futuro sarà frutto della capacità, da una parte e dall’altra, di acquisire orecchie aperte e lingua sciolta, liberandoci con l’Effatà della formazione dalla sindrome di sordomutismo che affligge la medicina dei nostri giorni.
Ci incoraggia a ben sperare la constatazione che nell’insieme del vasto corpo professionale esistono già terapeuti sensibili al valore della competenza comunicativa: sono in particolare coloro che operano nell’ambito delle cure palliative. Hanno imparato dall’esperienza che è proprio quell’ascolto dei bisogni e della biografia delle persone alle quali rivolgono le loro cure, sono proprio quelle parole offerte con delicatezza che fanno la differenza. E, inversamente, quando questa comunicazione non ha avuto luogo a monte, il progetto stesso dell’accompagnamento nell’ultimo tratto di strada è destinato a naufragare. Per virtù o per necessità, i palliativisti hanno dovuto considerare la buona comunicazione come parte integrante della cura. E la legge 219/2017 ha esplicitamente inserito la formazione come elemento essenziale del nuovo paradigma: “La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative” (art. 1, 10). Ecco: quello che auspichiamo è un salutare “contagio” che parta da medici, infermieri, psicologi e altri operatori schierati sul fronte palliativo e si estenda a tutti i professionisti che, a qualsiasi titolo e in qualsiasi momento, intervengono nel percorso di cura. Che le orecchie si aprano, che le lingue si sciolgano: che la comunicazione onesta impregni la medicina intera.
Quale opinione avete su questo urgente problema della medicina, quello della formazione dei medici a una comunicazione onesta? Avete sperimentato su di voi gli effetti di una comunicazione disonesta?
Caro Sandro Spinsanti, grazie per questo contributo importante.
La medicina sordomuta è figlia anche della aziendalizzazione della sanità e del tentativo, peraltro fallito, di scimmiottare in maniera grossolana e patetica modelli manageriali che confondono l’efficacia con l’efficienza.
Ancora grazie.
Sì, caro Felice: concordo che negli ultimi anni la sanità è evoluta (o “involuta”…) in una direzione che non era nei nostri piani. Intendo quei piani che erano stati immaginati all’inizio degli anni ’90, come riforma della Riforma, sintetizzati nel termine “aziendalizzazione”. La sudditanza al budget è stato l’aspetto più vistoso. Diverse altre cose non sono andate nella direzione auspicata. Ne cito solo una: il consenso informato. Da partecipazione consapevole alle scelte si è tradotto in liberatoria burocratica a fini difensivi. E in bella evidenza la latitanza della formazione alla comunicazione. Rassegarci?!? No!!! Cominciamo col gridare (Roberto Saviano) che non è questa la medicina che vogliamo e col mobilitare le competenze e energie che pur esistono. Nella mia attività da “predicatore dell’etica” ho incontrato professionisti eccelenti e punto su di loro. E su di te, caro Felice…
Caro Sandro
sono “ovviamente” d’accordo con quanto sostieni nel tuo articolo .Fa parte di una comune visione della medicina che però stenta ad affermarsi. Anche perché si accompagna alla richiesta di una modifica della società tutt’altro che facile.
Non per polemica , ma ho notato che all’ultimo convegno di Slow Medicine che si è tenuto a Careggi, sede della medicina universitaria ufficiale, con tanti studenti che rappresentano il futuro,, il disinteresse per l’avvenimento da parte di quest’ultima è stato totale. Non è un bel segno.
Comunque t’invierò anche un mio recente articolo per dimostrare che non ho perso ogni speranza…….
Un abbraccio
Alberto . .
Ho letto e apprezzato il tuo articolo sul cambio culturale che sta alla base dell’assistenza ai morenti. Tu fai parte, caro Alberto, dello “zoccolo duro” dei clinici che non hanno mai operato lo shitf verso la medicina aziendalizzata e non hai desistito dal perseguimento della qualità relazionale. Non per niente sei stato tra i pinieri della Slow Medicine… Stiamo nuotando controcorrente? Sì. Ma anche i salmoni lo fanno. E alla fine arrivano a deporre le loro uova, che si schiudono e danno origine a nuova vita…
L’insegnamento della comunicazione ai professionisti è la mia passione dai tempi del master in cure palliative..ho fatto la tesi su quello insieme alla collega amica Ludovica de Panfilis. Così importante per me questo aspetto che è stata anche la prima formazione fatta nell’ospedale di Reggio,ai colleghi dell’oncologia e dell’ematologia. A fine anno uscirà il nostro libro proprio sul programma “teach to talk”. Lavorerò perche nella recente riconosciuta specialità di Medicina palliativa ci sia l’insegnamento della comunicazione lore tutti i medici,almeno per fare passare il messaggio che saper comunicare non è semplicemente una dote innata..tutti dobbiamo investirci e migliorarci,per la fragilità dei nostri pazienti con cui parliamo ,per l’importanza delle scelte da affrontare insieme a loro,per essere degli operatori migliori di chi ci ha preceduto.
Grazie al mitico spinsanti per tenere alta l’attenzione su questo tema.
Silvia unita di cure palliative IRCCS Reggio Emilia
“Mitico Spinsanti”? Direi lievemente esagerato!!! Piuttosto un ostinato (cocciuto) missionario delle Medical Humanities. Cambiare il paradigma di fondo della pratica medica – per secoli paternalistica e fondata sull’asimmetria di potere – è un’impresa titanica. Nessuno ci può riuscire da solo. Ho trovato preziosi compagni di cordata tra i professionisti, soprattutto tra gli infermieri, che negli anni recenti che abbiamo alle spalle hanno vissuto un cambiamento epocale di ruolo e di consapevolezza. Ma anche tra “cittadini esperti” (non presunti tali, ma daffero formati a entrare nei meccanismi della cura). Soprattutto punto le mie speranze sui giovani disposti a percorrere i sentieri dell’etica e della competenza comunicativa.
Sono totalmente d’accordo sulla necessità di una “formazione alla competenza comunicativa” per tutti i soggetti coinvolti nella comunicazione.
Inoltre stimo molto i professionisti che affrontano così apertamente questa tematica. Vorrei tuttavia esprimere un mio pensiero su una particolare questione (che forse, in un certo senso, si risolve già da sé all’interno stesso dell’articolo, visto l’intero contesto altamente professionale).
Quando lei scrive “le reazioni adolescenziali di tanti malati e loro familiari”, potrebbe, a mio parere, risultare un pò problematico nell’ambito di un discorso così delicato che lei affronta con tale passione e competenza.
Dal mio punto di vista di “young caregiver” i pazienti e i parenti potrebbero percepire la parola “adolescenziale” come un ostacolo: tra il voler esprimere apertamente la loro sofferenza e il non poterlo fare per un consenso sociale che inavvertitamente riduce la reazione emotiva naturale in un capriccio infantile, dimenticando come una reazione di dissenso sia in realtà il segnala di un problema.
Inoltre sempre a partire dall’esperienza che ho vissuto, i pazienti e i parenti si trovano sempre in una posizione di svantaggio: perché sofferenti, perché bisognosi di cure, perché privati spesso della loro autonomia e i parenti, in molti casi, sentono il peso del non essere sufficientemente supportati, facilitati, accompagnati in momenti di estrema sofferenza, sono, come si suol dire, emotivamente coinvolti.
In altre parole, né i parenti né tanto meno i pazienti, possono fungere da cuscinetto tra l aspettativa del professionista (per il quale la sua azione debba venir compresa per amore della diplomazia e del rispetto verso una professione senza dubbio di grande importanza e che richiede molta responsabilità e competenza) e la gestione del loro processo del dolore che richiede, per ogni individuo, tempo e Cura.
Non voglio in alcun modo giustificare immotivate reazioni di violenza contro chi fa il proprio lavoro. Invece suggerirei un forte scambio tra le parti (medici/pazienti-parenti) sulla base della quale costruire percorsi di formazione che tentino di non trascurare nulla; perché per quanto l’eccellenza non sia figlia della perfezione è comunque necessario costruire uno strumento formativo al massimo delle sue possibilità, in quanto all’interno di un mondo così complesso, l’equivoco è sempre in agguato.
Grazie per ciò che fate.