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La fine della vita

La cura, la dignità e la solitudine, di Marina Sozzi

Il Covid-19 ha portato via la dignità del morire, scrive sul Journal of Palliative Medicine  Max Chochinov, autore di un noto volume sulla Terapia della dignità. Il terribile isolamento dei pazienti Covid, l’estrema vulnerabilità e l’inclinazione a sentirsi essi stessi “contagio” fanno sì che essi vadano incontro a depressione, ansia, rabbia, e perdita di autostima. Insieme a questa condizione di solitudine, l’impossibilità di vedere i familiari, e il divieto di celebrare riti funebri qualora muoiano, hanno compromesso la loro dignità.

Chochinov parla delle persone malate di Covid-19, e sottolinea che in modo analogo sono colpiti anche i curanti, spesso inviati a curare il Covid senza alcuna esperienza pregressa di malattie infettive. La fatica di turni massacranti da fare con dispositivi di protezione difficili da gestire, la frequenza delle morti rispetto alle quali ci si sente impotenti, l’ansia di essere contagiati e di poter contagiare a loro volta i propri cari, hanno portato a una moltiplicazione di casi di burnout e di malessere psichico, di cui probabilmente non è ancora possibile misurare tutti gli effetti.

Che fare? Occorre fare in modo che chi si ammala e muore per il virus non muoia privato della dignità. Chochinov è convinto che restituire dignità ai pazienti significhi anche ridare il sentimento del controllo e dell’efficacia ai curanti, anche quando l’esito della cura non dovesse essere la guarigione.

Raccomanda che si ripristinino alcune condizioni delle cure capaci di preservare la dignità. Identifica quattro caposaldi della buona cura: 1) il corretto atteggiamento dei curanti, che implica un profondo rispetto per i pazienti. L’atteggiamento è fondamentale perché la percezione di sé dei malati dipende da come vengono visti da coloro che li curano. 2) Il corretto comportamento, che consiste in alcuni gesti significativi, come quello di prendere una sedia e sedere accanto al letto del malato per parlargli. 3) La compassione, che non coincide con la pietà, perché porta ad agire per alleviare la sofferenza del paziente, e 4) il dialogo, che riguarda le conversazioni che si hanno con il paziente nel rispetto della sua personalità. Chochinov non manca di far notare che l’attenzione posta a questi quattro punti aiuta non solo i pazienti, ma anche i curanti, che si sentono meno impotenti e frustrati.

Questo ragionamento di Chochinov va esteso non solo a chi muore per il virus, ma anche a chi muore durante il periodo del virus. E, in particolare, vorrei sottolineare un aspetto del ragionamento di Chochinov, che riguarda la dimensione dell’isolamento e della perdita di contatto con i familiari, che in Italia è stata vissuta da tutti coloro che erano ricoverati, indipendentemente dalla patologia: in ospedale, nelle RSA e, nei primi mesi della pandemia, anche in hospice. Le conseguenze di questo isolamento sono di estrema gravità per i malati, per i curanti, ma anche per i familiari, costretti ad attendere impotenti la telefonata del personale sanitario. Una comunicazione spesso inadeguata, per mancanza di competenze e per la difficoltà complessiva della situazione.

La tutela della salute dei degenti e del personale curante è obiettivo irrinunciabile, naturalmente, ed è comprensibile che di fronte alla prima ondata di pandemia si sia deciso di impedire le visite nei luoghi di cura. Tuttavia, a distanza di più di sei mesi, quando c’è stato il tempo per riorganizzare i servizi in vista della prevedibile seconda ondata, lasciare che le persone vivano la malattia e la morte in solitudine è una conseguenza non obbligata e inaccettabile della pandemia. Gli anziani, soprattutto, senza i familiari deperiscono, si lasciano andare e perdono lucidità.

Occorre anche dire che l’idea che i familiari non potessero più entrare in luoghi sanitari per via del Covid è stata accolta con facilità e con fin troppo rigore.  Probabilmente il timore del contagio si è saldato con una mentalità vecchia ma ancora piuttosto diffusa nella biomedicina: il pensiero che i familiari, lungi dall’essere alleati degli operatori, e importanti fattori di sostegno dei degenti, siano invece un ostacolo, un intralcio rispetto alla cura. Le famiglie, private della possibilità di vedere i propri cari, sono defraudate della possibilità di essere testimoni della cura, e quindi di accertarsi che la cura sia la migliore possibile, oltre che espropriate della consolazione di accompagnare i propri cari.

Occorre trovare una soluzione diversa, credo sia giunto il momento di dirlo a voce alta, soprattutto quando si parla di persone che non hanno contratto il Covid e sono ricoverate in strutture non Covid. È intuitivo pensare che basterebbe fare un tampone o un test veloce al familiare a cui è permesso entrare. E, se questo rappresenta un costo troppo alto per la sanità pubblica, si può anche pensare di farlo sostenere in parte ai cittadini.

Ma non possiamo continuare a derogare a principi inderogabili, come il diritto a morire con dignità.

Che ne pensate? Quali sono le vostre opinioni e le vostre esperienze in proposito?

14 Ottobre 2020/21 Commenti/da sipuodiremorte
Tags: anziani, Covid-19, cura, dignità del morire, Max Chochinov, RSA, solitudine, visite
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https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/10/solitudine-depressione-anziani-1200x900-1-e1602667435803.jpg 265 350 sipuodiremorte https://www.sipuodiremorte.it/wp-content/uploads/2020/10/sipuodiremorte_logo.png sipuodiremorte2020-10-14 11:36:172020-10-14 18:25:48La cura, la dignità e la solitudine, di Marina Sozzi
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21 commenti
  1. enrico rossi
    enrico rossi dice:
    14 Ottobre 2020 in 18:31

    Quanto scritto , con grande sensibilità e umanità dalla Dr.ssa Sozzi non può che essere pienamente condivisibile .
    Vorrei aggiungere una personale riflessione suffragata dalla esperienza di vita: credo che sia oramai letteralmente sparita una figura che ritengo importantissima del passato e che ricordo con ammirazione e nostalgia : ossia quella del vecchio ” medico di famiglia ” che conosceva il proprio paziente non solo negli aspetti medici ma anche e in particolare le sue problematiche umane e sociali perchè dopo l’orario classico di ambulatorio ,passava periodicamente a visitare le famiglie degli assistiti e con la scusa di fumarsi una sigaretta o bere un bicchierino, ascoltava ed ascoltando capiva che a volte una parola era più potente di una medicina .
    Questa vecchia figura è stata sostituita da tempo , sottolineo purtroppo, dal “medico di base” che , il più delle volte e solo una fredda figura che si limita ad ascoltare i malanni per pochi secondi e poi ridursi a prescrivere esami, visite specialistiche ecc. senza dedicare qualche minuto per un dialogo sulle condizioni generali della vita del paziente, che sicuramente ,a volte , sono portatrici o riflettono ,alcune malattie / disturbi dell’assistito.
    Credo in definitiva che occorra rivedere, approfittando di questo particolare momento storico ed alla luce della grave pandemia che ci ha colpiti senza preavviso, il percorso preparatorio alla professione sia questa dei medici che degli operatori sanitari in genere.
    Senza una cultura che faccia capire pienamente il privilegio di praticare un lavoro che è principalmente missione verso il malato, ci troveremo fra non molto ( o lo siamo già ??) ad essere considerati solamente dei numeri o codici fiscali .

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      17 Ottobre 2020 in 12:11

      Grazie Enrico. Sì, c’è il rischio che i numeri (di contagi, di morti) prendano il sopravvento sulla considerazione che chi muore, e chi resta, è una persona, con emozioni e bisogni che non possono essere trascurati.

      Rispondi
  2. Franca Di Mauro
    Franca Di Mauro dice:
    16 Ottobre 2020 in 11:51

    Condivido pienamente quanto scritto dalla dottoressa Sozzi così come leggendo i quattro capisaldi della cura esposti dal dottor Chochinov, non posso non ricordare che sono proprio i principi che vengono insegnati ai volontari in cure palliative .

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      17 Ottobre 2020 in 12:09

      Hai ragione Franca, le cure palliative si rivelano essere, sempre più sovente, il modello della cura.

      Rispondi
  3. paolo maccagno
    paolo maccagno dice:
    16 Ottobre 2020 in 19:26

    Cara Dott.ssa Sozzi grazie per questo contributo. Da qualche tempo seguo il suo blog di cui condivido i presupposti. Credo che sia tempo di dire a voce alta che è necessario trovare soluzioni diverse. Sì ha ragione, è urgente.
    Trovare soluzioni diverse significa partire da un’idea di cura diversa. E’ quindi necessaria una consapevolezza differente che veda la cura non (soltanto) come tecnica medica ma come un prendersi cura e un aver cura della persona, in cui le famiglie, gli amici e lo stesso paziente partecipano al processo di guarigione. Curare rende le persone oggetti mentre l’aver cura le rende vive e partecipi regalando dignità anche di fronte alla morte. Le soluzioni diverse che si devono trovare richiedono un profondo cambiamento di paradigma di pensiero. Ciò che sta succedendo è inaccettabile. Grazie

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      17 Ottobre 2020 in 12:05

      Grazie a lei, ha proprio ragione. E’ questione di concezioni della cura.

      Rispondi
  4. Ferdinando Garetto
    Ferdinando Garetto dice:
    16 Ottobre 2020 in 22:26

    Che dire? Bellissimo articolo, Marina! Avevo letto il lavoro e condivido in pieno il fatto che l’ABCD di Chochinov (Attitude, Behavior, Compassion, Dialogue) dovrebbe essere un punto di riferimento per la ricostruzione della società e delle persone. Ce n’è particolare bisogno ora che la “fase due” ci trova tutti più stanchi e in difficoltà. Ma tu l’hai spiegato benissimo e arricchito con la tua sensibilità: davvero non c’è nulla da aggiungere, ma solo da “lavorarci”.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      17 Ottobre 2020 in 12:07

      Grazie Ferdinando, anche per avermi inviato l’articolo di Chochinov. Credo che dovremmo cominciare a sollevare questo problema in più sedi possibili.

      Rispondi
  5. Silvia
    Silvia dice:
    17 Ottobre 2020 in 08:36

    Grazie Marina per questo contributo..abbiamo scritto una riflessione con chochinov
    Proprio durante la pandemia covid e ora inizieremo uno studio per capire come questa dimensione sia distrutta/enfatizzata dal virus tra operatori e pazienti.sono convinta anche io che limitarsi a “limitare” accessi contatti ecc sia solo la soluzione immediata ma che siamo chiamati a diventare sempre più creativi per scoprire forme nuove in cui garantire dignità e mantenerla..sia per i pazienti ma anche per il lavoro di noi operatori.
    Un abbraccio

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      17 Ottobre 2020 in 12:08

      Cara Silvia, grazie per il tuo commento e soprattutto grazie per il prezioso lavoro che stai facendo. Un abbraccio a te.

      Rispondi
  6. Gabriella Fubini
    Gabriella Fubini dice:
    17 Ottobre 2020 in 21:38

    Sono anch’io perfettamente d’accordo che sia disumano ed inconcepibile lasciare un malato da solo e isolato in un ospedale. Spesso per il personale sanitario i parenti sono visti come degli scocciatori e sono ritenuti un intralcio nello svolgimento del loro lavoro. Posso comprendere che la gestione del lavoro del personale sanitario e’ spesso molto stressante con turni di lavoro massacranti, ma credo che a monte di questo problema ci sia una carenza di sensibilizzazione su una questione di vitale importanza; la dignita’ del malato e il suo bisogno di amore e di calore umano. Ho un esempio molto diverso qui in Israele dove vivo attualmente; durante la prima ondata della pandemia e anche ora nella seconda i malati non sono mai stati isolati dai famigliari e nessuno e’ morto da solo. E’ considerato un valore assoluto non lasciare un paziente abbandonato a se stesso. Anche qui i medici e gli infermieri sono oberati di lavoro e come ovunque non hanno la possibilita’ in ogni caso di dedicare tempo ai pazienti se non per le cure. Ogni persona ricoverata puo’ avere vicino un famigliare e credo che non solo per chi purtroppo non sopravvive, ma anche per le persone che guariscono sia di vitale importanza avere qualcuno accanto. Spero davvero che in Italia si faccia qualcosa urgentemente per risolvere questa problematica cosi drammatica.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      18 Ottobre 2020 in 12:00

      Grazie Gabriella per aver condiviso l’esperienza israeliana (dove peraltro il virus ha avuto numeri inquietanti, soprattutto se commisurati all’estensione del Paese e alla sua popolazione). Significa che è possibile trovare soluzioni alternative.

      Rispondi
  7. Ida Pilloni
    Ida Pilloni dice:
    17 Ottobre 2020 in 23:23

    Ho letto con molta attenzione quanto scritto, e sono d accordo con ogni parola, ho lavorato per 10 anni in rsa, e a marzo ho visto chiudere le porte. i parenti fuori e i nostri cari anziani dentro.
    le video chiamate non sono state sufficienti, quello che manca é l abbraccio, la carezza, il bacio.
    l operatore può anche farlo, ma non è il figlio o la figlia, o comunque il parente.
    vedere morire anziani, soli, senza nessuno accanto ed essere consapevole che i parenti avrebbero rivisto il proprio caro, solo dopo morto, è stata dura.
    il nostro lavoro è andato avanti, per forza di cose.
    è pensare e rendermi conto che adesso siamo di nuovo al punto di partenza, è terribile e poco umano.
    noi operatori andiamo a casa a fine turno. e torniamo dai nostri cari.
    gli ospiti delle rsa, sono ‘abbandonati’ e non per volontà della famiglia.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      18 Ottobre 2020 in 12:02

      Grazie Ida per la sua testimonianza. E’ davvero sconcertante, dopo tanti mesi, trovarsi, come in un crudele gioco dell’oca, alla casella di partenza. Possibile che non siamo stati in grado di trovare soluzioni per questa prevedibile seconda ondata?

      Rispondi
  8. Maria Teresa Palermo
    Maria Teresa Palermo dice:
    19 Ottobre 2020 in 09:24

    Totalmente d’accordo con Marina. In pochi mesi si è polverizzata l’intera filosofia delle cure palliative. In alcuni hospice più illuminati si cerca di contenere i danni ma è molto molto difficile. Le persone muoiono sole con la televisione accesa. Non è umano.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      19 Ottobre 2020 in 10:09

      Grazie Maria Teresa. Dobbiamo fare la più ampia campagna possibile per fare pressione e ottenere un cambiamento di rotta.

      Rispondi
  9. Anna Tavella
    Anna Tavella dice:
    20 Ottobre 2020 in 10:06

    Grazie Marina per questo bellissimo articolo. Credo che in quello che accade ci sia in gioco tantissimo: la dignità del morire e un’idea di cura che non si limiti alla tecnica medica, come giustamente hanno evidenziato alcuni contributi, ma anche una diversa idea di società. Sotto il peso dell’emergenza e delle innegabili difficoltà a gestire una situazione pandemica, sono stati completamente oscurati aspetti immateriali del vivere e del morire (affetti, relazioni, “cura” in senso lato, memoria) essenziali al riconoscerci parte di una comunità solidale. Prendersi cura gli uni degli altri non è qualcosa di importante ma “sacrificabile” in nome della priorità sanitaria (o di quella economica), è un tassello fondamentale del legame sociale che serve a sostenere anche quelle priorità. Portare all’attenzione del discorso pubblico la dignità dei più fragili e di chi gli sta accanto può essere uno strumento per rinforzare e costruire quella responsabilità, individuale e collettiva, di cui abbiamo tanto bisogno…

    Rispondi
  10. Daniela Arervo
    Daniela Arervo dice:
    28 Ottobre 2020 in 23:21

    Grazie Dott.ssa Sozzi che con il suo lavoro incessante ci offre sempre argomenti di riflessione su problemi così profondi e dolorosi. Non avrei mai pensato, fino a poco tempo fa, di dovermi trovare in una situazione di limitazione della mia libertà come in un paese in guerra, o In un periodo storico in cui la distanza fisica era normale, la comunicazione era difficile, il mondo si limitava ai paesi vicini. E’ vero, oggi non è così, abbiamo i cellulari, le video chiamate..il mondo che scorre in mille notizie ed immagini…ma alla fine ciò che conta è la presenza, il contatto, lo sguardo, la vicinanza. Lo è sempre, per ogni relazione affettiva. Lo è ancora di più quando le persone stanno male, quando il bisogno dell’altro aumenta perchè ci si sente fragili, l’esigenza di essere accanto a chi amiamo è fondamentale.
    Mi sono ritrovata in questo periodo ad immaginarmi ad infrangere qualsiasi regola pur di rivedere i miei genitori per salutarli o stare loro vicino, dopo decenni che vivo lontano da loro. Ma mai ho avuto tali restrizioni, mai mi sono ritrovata a non poter prendere la mia auto, o un treno, per correre da loro. Questa limitazione mi ha molto irritata, ma non in sè per la regola da infrangere, ma per la responsabilità che mi veniva tolta, la mia responsabilità personale. Lavoro in ospedale da anni e i primi ad essere stati esposti, soprattutto all’inizio della pandemia, sono stati proprio gli operatori sanitari. Lavoro tutti i giorni a contatto con malati e io non posso andare a trovare un mio caro? Mi sono immaginata ad infrangere altre regole, ad entrare in un ospedale vestita con una divisa bianca, portarmi dietro dei DPI, per camuffarmi, confondermi tra gli operatori e andare dalla persona che amo…
    A parte questi deliri notturni, dettati dalla paura di perdere le persone care e di dover gestire quell’orribile sentimento di impotenza, mi chiedo seriamente: ma perchè per i casi infetti non si individuano 1 o 2 parenti, lì si addestra all’uso delle protezioni, gli si chiede anche di acquistarsele se serve, permettendo loro di stare vicino ai loro parenti? Scaricando magari anche i sanitari? Posso capire in rianimazione, la cosa è impossibile da gestire, ma in reparto, o nei reparti no covid, credo che sarebbe possibile.
    In questa seconda fase della pandemia trovo tutto questo frutto di impreparazione e improvvisazione dei nostri amministratori, ma soprattutto una totale mancanza di fiducia nella responsabilità individuale. Siamo così diseducati alla responsabilità? Tanto che nessuno più crede nella capacità che ha ognuno di noi nel saper stare al suo posto? Nel non fare stupidaggini mettendo a rischio la propria salute e quella degli altri? Io credo che dare fiducia porti ad altra fiducia e che toglierla serve a creare sempre più irresponsabili.
    Facciamo triage e tamponi a chi entra in reparto ma lasciamo che la vita continui, la vita fino alla fine del viaggio. Si Marina dobbiamo cambiare urgentemente, trovare nuove soluzioni, anche per nuove emergenze che il futuro ci riserverà.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      7 Novembre 2020 in 11:30

      Grazie Daniela, leggo solo ora questo suo commento. Si sta ragionando, in un gruppo di studio su Cure Palliative e Covid della Rete Oncologica, di proporre quello che lei propone. Acquistare tamponi veloci e DPI e permettere l’ingresso ai familiari, almeno in hospice. Per cominciare a dare un segnale…

      Rispondi
  11. Simone Cernesi
    Simone Cernesi dice:
    7 Novembre 2020 in 22:25

    Ottima analisi.
    Condivido ogni riflessione come medico di Rsa.
    La nostra Rsa é stata indenne durante la prima ondata ora in piena e sofferta emergenza.
    Credo che continui a mancare un patto con le famiglie e un dibattito intorno alle scelte di cura.
    Credo abbia prevalso ancora una volta un modello di medicina lontano dalla partnership medico / caregiver o medico / famglia.

    Credo che si debba continuare ad investire nel migliorare il controllo infettivologico (possibile solo con adeguate risorse é inutile prenderci in giro) e conciliarlo con una umanizzazione delle cure. Non dimentichiamoci che le persone fragili non sono solo in cra e rsa ma anche sul territorio dove non credo siano meno vulnerabili.
    Il contributo della bioetica nel processo decisionale é stato sottovalutato nella prima ondata spero che si possa recuperare e valorizzare. Grazie Marina.

    Rispondi
    • sipuodiremorte
      sipuodiremorte dice:
      8 Novembre 2020 in 13:04

      Grazie a lei, Simone. Sì, occorre non archiviare i processi di umanizzazione delle cure rinviandoli a tempi migliori, e continuare a considerarli prioritari anche in tempi di pandemia.

      Rispondi

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