Il limite, la morte
Scriveva Alexis de Tocqueville nel 1835, La democrazia in America: “Chi mette il proprio cuore nell’esclusiva ricerca dei beni di questo mondo ha sempre fretta, perché non ha che un tempo limitato per trovarli, procurarseli e goderne. Il pensiero della brevità della vita lo pungola senza requie. Indipendentemente dai beni che possiede ne immagina a ogni istante mille altri che la morte gli impedirà di gustare, se non si affretta.”
Vorrei portare l’attenzione sul tema del limite, e di quel limite per antonomasia che è la morte. Ai lettori di questo blog è nota l’osservazione che i nostri contemporanei respingono il pensiero della morte e della stessa mortalità.
Lo fanno, in parte, proprio per non rendersi neppure conto del tempo limitato di cui parla Tocqueville, che renderebbe grottesche tante vite e tanti nostri obiettivi. La cultura occidentale mira al superamento di ogni limite, e considera un valore la dismisura, la crescita illimitata, la corsa cieca verso il futuro, e la trasgressione della norma. Accumulare oltre ogni limite, consumare senza freni, desiderare infinitamente: su questa mancanza di saggezza e senso della misura si fonda il nostro capitalismo avanzato.
Espungere il limite dalla nostra vita significa non potersi prendere alcuna responsabilità. La responsabilità poggia infatti sulla consapevolezza del diritto degli altri a essere, vivere e possedere nella stessa misura in cui noi lo facciamo. L’irresponsabilità ci conduce invece a esaurire le risorse del pianeta, a ignorare interi continenti che diventano sempre più poveri per via della nostra sconfinata ingordigia, e a eleggere governanti altrettanto irresponsabili. La responsabilità è saggezza, i greci dicevano “phronesis”, e questa parola significava consapevolezza del limite, che si contrapponeva alla dismisura, alla violenza, alla “hybris” verso gli uomini e gli dei. Quale senso della responsabilità personale posso avere se rifiuto di considerarmi mortale?
Tornare a riflettere sulla nostra morte può anche aiutarci a ritrovare quel brandello di felicità che sta nell’appagamento dei bisogni (che sono limitati, a differenza dei desideri) e nel godimento anche delle piccole gioie del quotidiano.
Il suo brano mi fa venire voglia di regalarvi quanto ho imparato, sulla mia pelle, da questa terribile malattia che ho, la sclerosi multipla: ma dove corriamo, o meglio, data la mia difficoltà a deambulare, dove corrono? Ho capito che il mondo va avanti anche senza di me, anzi manco se ne accorge. Affrettarsi tanto porta soltanto ad affaticarsi. Se arriviamo 5 minuti dopo, ma più sereni e più sorridenti, forse è addirittura meglio. Un amico mi ha regalato un motto che ho fatto mio: Spendiamo soldi che non abbiamo per acquistare cose di cui non abbiamo bisogno, per impressionare per un tempo fuggevole persone che non ci interessano davvero. Utlizziamo meglio il nostro tempo e le nostr energie! Con affetto, Paola
Cara Marina,
questo tuo post mi ha immediatamente richiamato alcune parole scritte di recente dal mio maestro nel Counseling (e anche nella vita), Vincenzo Graziani; riflessioni che ha voluto, nei giorni scorsi, condividere con noi collaboratori e sulle quali il mio sentire è pienamente consonante.
Le pongo qui, come contributo alla discussione.
“Se avessi la certezza assoluta di essere immortale non sarei persona, non avrei quella qualità di esistenza che più mi è cara e per la quale dono e ‘ritraggo’ la mia vita ogni giorno. Senza il limite e il fine, la mia esperienza nel mondo non sarebbe la stessa e non sarebbe ‘ritraibile’. Senza ‘orizzonte’ non c’è mondo umano. Senza fine dell’esistenza non c’è un fine all’esistenza.
Se non avessi il presagio della mortalità e il coraggio di non rimuoverlo dalla mia consapevolezza, tutto quello che mi accade non potrebbe accadermi nella sua unicità. Le mancherebbe quel carattere di ‘finitezza’ che è appunto la sua qualità: il valore della vita è nel venirne a capo … nel giungere alla sua compiutezza: senza brusche interruzioni, senza mali sospesi, senza amari rimpianti.
Qualcosa è qualcosa solo nella sua finitudine … e questa non è solo concretezza logica . Nella finitudine le cose ci accadono come irripetibili. Il senso della totalità del mondo è garantito dalla sua mortalità, dal suo fine, dal suo finire. La finitezza è il senso”.
Cordialmente.
Antonio
Grazie Marina per questa interessante riflessione, che mostra come la negazione della nostra natura mortale sia intimamente legata al rifiuto dei limiti alla nostra azione nel mondo, al nostro dissennato modello di sviluppo, alla volontà di potenza che abbiamo visto dispiegarsi nelle sue peggiori forme nel corso della storia moderna.
Paradossalmente, la rimozione del limite naturale della morte (della nostra morte individuale) ci ha portato e ci porta così vicini alla distruzione della vita: violenza verso gli altri esseri umani (la cui mortalità, chissà perché, non ci turba o ci turba meno), annientamento del legame sociale, distruzione del nostro stesso habitat naturale.
Recuperare il senso della mortalità – accettarla, come dice giustamente Antonio, come orizzonte che consente il dispiegarsi della nostra libertà e creatività, oltre che della nostra responsabilità – potrebbe aiutarci a recuperare un rapporto di equilibrio con la natura e ridare forza all’umana solidarietà?
Chissà, sotto questa bella nevicata, stamattina sembra tutto più semplice…. Un saluto a tutte e tutti. Anna
Grazie Paola, Antonio e Anna per le vostre preziose riflessioni!
In fondo troviamo la morte ad ogni limite e il miglior modo di vivere mi sembra quello di inoltrarsi al confine, la dove noi finiamo, luogo dell’ignoto e dell’incontro con l’altro, del rischio di viversi.
Proprio oggi ho detto un ultimo ciao ad un amico. Un uomo buono,onesto e che ho avuto l’onore di conoscere. Già,e’ un luogo comune,ma in questi momenti si apprezza,condivide,interiorizza una volta di più la frase citata di Tocqueville. Grazie Marina!
E’ proprio così, caro Sandro. Grazie per aver condiviso la tua tristezza e la tua saggezza.