I “cancer blogger”: raccontare il tumore all’interno dei social network, di Davide Sisto
La rivoluzione digitale in corso, che ha trasformato la nostra vita quotidiana soprattutto a partire dalla nascita di Facebook il 4 febbraio 2004, non ha risparmiato il tema della malattia. Da qualche anno, infatti, si è diffuso il fenomeno dei cosiddetti “cancer blogger”, coloro che sentono il bisogno di condividere sui social network e nei blog online la propria esperienza quotidiana con la malattia tumorale. Chi preferisce raccontare la propria malattia tramite i video apre un canale personale su YouTube; chi invece vuole privilegiare le immagini fotografiche utilizza il suo profilo su Instagram; chi, infine, punta maggiormente sulle riflessioni scritte si serve del suo account Facebook. In tutti i tre casi, il più delle volte integrati gli uni con gli altri, si crea una narrazione composta da parole, fotografie e video per mezzo della quale il malato diventa una specie di influencer, con un seguito di followers molto numeroso che “fa rete” – letteralmente – attorno a lui e alla sua malattia.
Tra i tanti esempi, uno mi ha colpito in particolare: quello della pagina Facebook chiamata “Anime Belle di Teresa Calvano – #FuckCancer”. La pagina è stata gestita da questa ragazza trentenne di Andria, la quale ha raccontato per tre anni la sua quotidianità con l’osteosarcoma. Seguita da oltre ventimila persone – le “anime belle” – fino all’istante della sua morte, la ragazza ha condiviso pensieri personali, video e immagini di sé in cui è raffigurata mentre indossa foulard colorati che coprono i segni della chemioterapia. Nel corso degli anni, ha creato l’iniziativa “(T)urban wave”, vale a dire una serie di turbanti colorati femminili, adatti nei periodi della chemioterapia, che la ragazza ha deciso di donare ai reparti oncologici italiani. Nel suo ultimo video, a Capodanno, fa gli auguri alle sue “anime belle”, menzionando la sua condizione di salute precaria. Nei primi giorni del 2019 una parente dà la notizia della sua morte, ringraziando tutti coloro che hanno seguito la pagina in questi tre anni, offrendo il loro supporto “virtuale” tramite i commenti sotto i post. Da questo momento, la pagina Facebook di Teresa cambia connotazione: da narrazione autobiografica a punto di riferimento per tutti coloro che vivono o hanno vissuto la stessa esperienza tumorale. I familiari continuano a produrre e a distribuire foulard colorati, supportando le associazioni contro i tumori. E, inoltre, hanno dato vita a serate a tema dedicate alla memoria di Teresa, durante le quali psicologi e medici discutono delle malattie tumorali, le pazienti sottoposte a chemioterapia sfilano con i foulard colorati e ha luogo l’iniziativa “Beautiful Women in Oncology”, con make up artist a disposizione delle donne malate.
Questo è un esempio positivo, a mio avviso, di integrazione tra la dimensione online e quella offline. All’interno dei social network ogni malato si identifica con il messaggio che comunica e veicola verso gli altri. L’assenza della fisicità e l’impossibilità di usare il corpo per dare visibilità alle sue emozioni rende ciò che comunica – messaggi scritti e orali, fotografie, video – il suo corpo digitale. Soggetto e oggetto della narrazione, egli può mettere da parte l’imbarazzo provato nella dimensione offline, in cui il corpo – mostrando i segni della malattia – genera quella condizione di distanza e di isolamento che aumenta la sofferenza del malato. La disinibizione, dovuta alla protezione e alla distanza offerte dagli schermi digitali, rende più facile raccontare i contorni della propria malattia in maniera esplicita. E, dunque, permette di “normalizzarla”. Inoltre, determina effetti concreti nella dimensione offline, come dimostra Teresa Caivano.
Addirittura, al funerale del trentatreenne inglese Daniel Edward Thomas (che ha raccontato il suo tumore tramite centinaia di video su YouTube), sono accorse decine e decine di persone le quali, pur non conoscendolo nel mondo offline, lo hanno seguito per anni in quello online, sentendosi – quindi – coinvolti.
Ovviamente, non mancano le criticità: l’assenza della presenza fisica può favorire comportamenti superficiali e irrispettosi nei confronti del malato che si espone. Inoltre, vi è il concreto rischio di confondere la realtà della malattia con la sua rappresentazione, se non si è in grado di attribuire il corretto significato alle immagini e ai video condivisi. Tuttavia, mi chiedo: se a chi soffre per una grave malattia fa bene condividere sui social network le sue sensazioni, creando una piccola comunità attorno a lui, perché essere critici o eccessivamente dubbiosi nei confronti di questa inedita pratica?
Qual è la vostra opinione in merito? Come sempre, siamo molto curiosi.
colpita anni fa da un cancro al seno (sì, si può dire (anche) cancro, per citare il sito su cui ci stiamo incontrando) ho capito che più se ne parla e meglio è. Inserita nel Progetto Diana mi ha fatto un gran bene confrontarmi con tutte le altre donne che incontravo alle conferenze e alle “lezioni” eccetera.
Il mezzo “virtuale” forse non è dei più adatti (per tutti i motivi già scritti), ma ribadisco il concetto – secondo me e la mia personale esperienza: più se ne parla e meglio è. Quando ti ammali hai infatti la sensazione che nessuno potrà capirti se non chi abbia o abbia avuto la malattia e così i tuoi contatti “di prima” sono spesso inutili (e a volte dannosi).
Cinzia
Resto convinta che sia la scrittura sia la condivisione di quello che proviamo siano sempre terapeutiche (o almeno lo sono state per me). Sul mio blog ho condiviso l’esperienza del tumore di mio padre, la morte di mio nonno e di mio suocero, e mi ha aiutato tantissimo (a sfogarmi, a elaborare, a trovare confronto e conforto). Per mia fortuna, su internet non ho trovato persone irrispettose, ma solo tanto affetto e solidarietà.
PS: bellissimo articolo, come sempre.
Dieci anni fa, essendo volontaria in un Reparto di Chemioterapia, ho creato un gruppo di auto mutuo aiuto online per pazienti oncologici, dopo aver fatto un corso di formazione per facilitatori di gruppi AMA per il lutto , pensando che la malattia è un periodo che ha molto in comune con il lutto. È stata un’esperienza importante per tutti i membri, (una quindicina , essendo un gruppo a cui per accedere bisognava fare domanda all’associazione) che hanno condiviso paure, speranze, incomprensioni e tanto altro.
Ho seguito per anni On the Widepeak che è diventato anche un libro.. Ho trovato questo blog attraverso Oltreilcancro.. e da lì è stata una scoperta dopo l’altra di cancerbloggers che mi hanno lasciata stupefatta per come la scrittura, la narrazione di sè nella malattia siano riuscite a trasmettere una dimensione profondamente terapeutica. A loro il mio grazie, ad Anna Gianesini, a Mia Camilla Lazzarini, ad Anna Lisa Russo.. e tanti altri narratori.
A dicembre 2018 a mia mamma è stata diagnostica la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica): all’improvviso mi sono ritrovata dall’altra parte della barricata diventando una “caregiver” a tempo pieno. Non ho la malattia ma la sto subendo. Non è cancro ma è qualcosa che comunque sta divorando tutti in famiglia. Il dolore per quello che sto vivendo insieme alla mia famiglia ha fatto in modo che scrivessi un libro dove racconto la storia di mamma, della nostra famiglia e di come tutto sia cambiato provando a essere una sorta di manuale di sopravvivenza alla SLA, partendo dal nostro vissuto. Racconta la fatica, la paura, la disperazione di non poter fare nulla per arrestare la malattia e lo fa col punto di vista di un’infermiera (quella che sono) che è però anche e soprattutto una figlia. Ho voluto raccontare questa storia anche attraverso delle foto, tutte scattate da me. I momenti più importanti sono stati immortalati attraverso il mio cellulare e dal libro è nata la pagina Facebook “Essere un caregiver”, con l’obiettivo di far nascere una community che possa dare voce e ascoltare tutti quei caregiver che ogni giorno si prendono cura di un loro caro, tra mille difficoltà. E tutto questo è stato parte della terapia che a volte non è solo farmacologica e non riguardo solo il malato ma anche chi si prenda cura di lui/lei. Scrivere aiuta, non c’è dubbio. Ma aiuta anche leggere, per sentirsi meno soli.
Caro Davide,
da malato, sono assolutamente favorevole ai cosidetti “cancer bloggers”. La psicoanalisi, per prima, in funzione della resilienza a seguito di traumi importanti, invita e ripercorrere la propria vita e a raccontarla, anche per iscritto. ”Medicina narrativa”, la chiama. Quindi c’è chi scrive un libro, o a un giornale, chi partecipa a gruppi di auto-aiuto, chi si sfoga in internet. L’importante è buttar fuori, per non isolarsi, confrontarsi, condividere, anche per ridimensionare. In questi casi si incontrano – sia pur virtualmente – molte altre esperienze analoghe di altre persone, il che aiuta il dialogo e il confronto, e mitiga la solitudine e un po’ anche l’eventuale disperazione. Se poi lascia un’eredità così ricca come quella che hai descritto, “Anime belle”, ancor meglio: è come se la persona persa continuasse a vivere per altre vie anche per i suoi cari…
Personalmente, con una certa età, autodidatta del pc, e poco interessato e reincontrare persone di un passato ormai andato, sono sempre stato riluttante ad iscrivermi a un social. Le recenti notizie di furti dei dati, di identità fittizie (per non parlare dei condizionamenti su elezioni politiche), e soprattutto degli insulti grotteschi degli “haters”(cui tu accenni nelle ultime righe) mi fanno rendere ancora più ferma questa decisione. Poi, ho avuto esperienze di amicizie virtuali, alcune anche belle, ma sono sempre poi finite nel nulla. Non mi sento affatto “protetto” dal virtuale, anzi – rivolgendomi a sconosciuti – più esposto (è per questo che non rispondo ai tuoi post che rigiardano il web). Secondo me la presenza fisica è essenziale: il corpo, l’espressione, la voce, parlano molto di più delle parole scritte, o di fotografie.
Poi, sul tema specifico: sono una persona alquanto schiva, e, come avrai notato, finora avevo firmato i miei interventi sul blog di Marina solo col mio nome. Solo ultimamente mi sono deciso ad uscire un po’ più allo scoperto, anche dopo aver scritto alla rubrica “InveceConcita” di Repubblica su un argomento che può interessare chi legge qui. Memore dell’insofferenza dell’ormai celebre saggio di Susan Sontag “Malattia come metafora” (che detestava il fenomeno), criticavo i termini assurdamente belligeranti che usa la stampa nei casi di malati di tumore che escono allo scoperto (lo puoi trovare sul blog http://www.invececoncita.it ) e, in una parte tagliata, riportavo una frase del memoir di Yari Selvetella “Le stanze dell’addio”: “E’ una guerra? E che ruolo avrebbe il malato in questo conflitto di cui il suo stesso corpo è un campo di battaglia?”. Anche lì ho avuto molte risposte positive, ma anche critiche (per fortuna moderate), ma non ho potuto nemmeno rispondere per ringraziare, perché, per farlo, era necessario essere iscritti a facebook o twitter. Lo faccio qui, se qualcuno avrà occasione di leggere.
Oltre agli haters, non amo l’(auto)commiserazione, e detesto chi vuole sempre minimizzare a prescindere (“vedrai che andrà tutto bene…).: il che però succede anche con certi “amici”.
Detto questo, credo che ogni malato grave abbia il diritto di esprimersi come crede, e soprattutto come lo fa stare meglio. E, in ogni caso, una certa quantità di empatia non fa altro che bene, anche virtuale.
Grazie veramente a tutti per gli spunti e per le riflessioni riportate sotto questo articolo. Tutti molto interessanti, sia quelli che riguardano le esperienze personali che quelli che hanno fatto un ragionamento più teorico su questo particolare fenomeno.